Come scosso da una coltellata, che però ci si poteva aspettare, il corpaccione flaccido d’Europa reagisce d’istinto ai fatti di Parigi. Discussioni accese su satira, islam, integrazione, scontro di civiltà. Su molte questioni, come l’immigrazione, sentiamo argomenti banali (pensiamo forse possibile governare con le cannoniere un fenomeno epocale come lo svuotamento dell’Africa?). Per altre, come gli eccessi della satira, non è il momento opportuno. C’è molta emotività e poca ragionevolezza. Un certo laicismo radicale approfitta per attaccare ogni fede religiosa e massimamente la cattolica. Pochi ricordano i massacri contro i cristiani. E alcuni lo fanno solo strumentalmente o per polemiche personali. 



Di fronte al terrorismo non ci sono facili soluzioni. Gli americani tendono a prestare più attenzione alle questioni sostanziali, come al fatto che in parti del pianeta musulmano enormi ricchezze sono a disposizione del terrore internazionale. Impossibile però, per principio e ancor di più dopo la fallimentare esperienza della guerra irachena, seguire chi rilancia l’idea dello scontro armato di civiltà. Certo la soluzione non può essere moltiplicare gli organismi, come un po’ comicamente ha suggerito un ministro italiano proponendo una procura antiterrorismo, il cui unico effetto sarebbe di costare parecchio. 



I fatti di questi giorni costringono a rimettere a tema questioni fondamentali. Si ha allora la sensazione di una grave confusione maturata dentro la coscienza europea. La lettura che ne fecero profeticamente don Giussani prima e papa Ratzinger poi fu di una progressiva erosione delle evidenze razionali che sono a fondamento della civiltà occidentale. La ragione e le sue evidenze non hanno più forza per i guerriglieri nati e cresciuti nelle nostre città, per i foreign fighters che migrano in Siria, ma neppure per il cittadino qualunque. 

La faziosità litigiosa, il cinismo, l’ipocrisia interessata che cova sotto l’apparente unanimismo di questi giorni dimostrano un male insidioso. Si veda quanti capi di governi dispotici hanno marciato a Parigi. Gli islamici radicali intuiscono la nostra debolezza. Alcuni, sbagliando, pensano sia una debolezza militare. Altri una debolezza etica, che effettivamente c’è, ma non è il problema. Si tratta invece di una stanchezza di coscienza, di conoscenza, di rapporto con la realtà, che rende incerte le più elementari evidenze del vivere umano come la libertà, la sacralità della vita, la dignità di ogni uomo, il desiderio di felicità, l’accoglienza del diverso. In questa situazione la Chiesa cattolica non ha da proporre ricette politico diplomatiche. Naturalmente si prodiga, come nel caso di Cuba, per favorire pacificazioni, là dove possibile. Ma Papa Francesco ripete che si può costruire solo offrendo una testimonianza. 



Ieri, mentre a Gerusalemme e a Parigi si piangevano i morti, mentre non si fermava la violenza sui cristiani, sui bambini, usando i bambini, il Papa è sceso in Sri Lanka, armato solo del suo vestito bianco, in una terra ancora insanguinata da vent’anni di terrore e guerra civile. Francesco ripete (si veda il discorso del 12 gennaio al corpo diplomatico) che la pace sgorga solo dalla conversione del cuore e che in alternativa l’uomo è schiavo delle mode, del denaro, del potere e anche della religione. 

Non è un progetto politico: non possiamo programmare il cambiamento nostro, figuriamoci quello di popoli e nazioni. Ma, a guardare la storia, è ragionevole. Alla fine quello che rinnova davvero il destino dei singoli e delle nazioni non sono né le leggi né le pallottole. Sarà bene perciò continuare a seguire i discorsi del Papa. Magari leggendoli direttamente e non nelle sintesi interessate di cronisti e vaticanisti di varia tendenze.