Questa mattina 170 detenuti e 40 operatori hanno perso il posto di lavoro: le dieci cooperative di cui erano dipendenti, in nove diverse carceri italiane, hanno dovuto cessare con il servizio mense interne, perché è venuta meno la convenzione e il finanziamento da parte della Cassa ammende. Ora la gestione delle mense tornerà in capo alla stessa amministrazione penitenziaria, malgrado le proteste dei direttori degli istituti coinvolti. I quali hanno reso pubblica la loro posizione con una lettera in cui spiegano come l’impatto potrebbe essere traumatico: «Tutti i vantaggi economici, strumentali e gestionali su cui l’amministrazione ha potuto contare in questi anni verrebbero improvvisamente annullati con una regressione del servizio difficile da gestire».



Nella lettera si sottolineava «l’indubbio miglioramento della qualità del vitto somministrato ai detenuti», nonché «di pari passo con quello delle condizioni igienico-sanitarie delle cucine» e con numerosi «vantaggi economici», come i risparmi «sulla manutenzione ordinaria e, non di rado, straordinaria delle attrezzature», «sull’acquisto di prodotti per le pulizie», «per le utenze e le mercedi». Ovviamente le mense continueranno a funzionare, ma in capo alle amministrazioni carcerarie, con stipendi molto più ridotti per chi ci lavora. E per le cooperative che occupano detenuti anche in altre attività (com’è il caso della Giotto al Carcere Due Palazzi di Padova), venendo meno una commessa importante, l’equilibrio economico sarà molto più difficile da raggiungere.



Ma non è solo questo il punto. Ieri a Padova nel corso di una manifestazione pubblica all’interno del carcere, presenti numerose figure istituzionali, alla fine del “penultimo” servizio di mensa i detenuti addetti si sono sfilati le eleganti divise bianche da cuoco e hanno vestito il camicione bruno delle lavorazioni cosiddette intramurarie. È stato un gesto simbolico che dice tanto del valore di questa esperienza lavorativa che il ministero della Giustizia e il Dap hanno deciso di affossare. La divisa bianca racconta di un percorso cui sono legate l’attesa di una vita diversa e di una possibilità vera di riscatto, la consapevolezza di competenze acquisite e anche di un amore verso il lavoro che si sta imparando a fare.



Il camicione bruno all’opposto racconta di biografie reinghiottite dall’istituzione carceraria, pur mantenendo magari funzioni simili. Le esperienze delle dieci cooperative coprivano piccoli numeri rispetto al grande universo carcerario italiano (anche se i servizi che loro fornivano raggiungevano un numero ben maggiore di detenuti). Eppure la loro esperienza era la conferma che pratiche diverse sono possibili. Se quelle pratiche avevano costi maggiori, garantivano però una straordinaria convenienza economica in prospettiva: si preparavano persone in grado di costruirsi una nuova vita una volta usciti, con minori costi sociali in assoluto e in particolare con un’incidenza ridottissima di recidiva (ricordiamo che un detenuto costa allo Stato 3.500 euro al mese). Quindi è miope chi, come Milena Gabanelli sul Corriere, facendo i conti in tasca alle cooperative legittima la decisione del ministero.

Non basta un calcolo ragionieristico per capire la realtà. Perché la realtà esige che nei conti ci si metta anche il valore aggiunto della professionalità creata, della coesione sociale garantita, della qualità del servizio offerto. Tutte voci a cui è doveroso dare un valore economico. Quella delle dieci cooperative era un’esperienza vincente, una di quelle “best practices” che tutti evochiamo ed auspichiamo, magari guardando con occhi invidiosi a quel che si fa all’estero. Questa volta le “best practices” le avevamo in casa, ma per piccoli calcoli ragionieristici abbiamo deciso di affondarle.