Flamigna Agmar e suo marito ci ricevono in un garage che è diventata una casa di una sola stanza. Accendono la stufa e ci preparano il caffè. Non vogliono vivere come i rifugiati musulmani che hanno messo le tende nei campi ancora imbiancati dalla neve che rende la vita più difficile. Flamigna e suo marito sono fuggiti da Homs, dal terrore seminato dallo Stato islamico. Avevano paura che i jihadisti li avrebbero decapitati. Sono fuggiti da casa senza nulla e hanno trovato rifugio nel villaggio di Deir el Ahmar, nel nord del Libano, vicino al confine siriano. La città, prima della guerra, aveva 2.000 abitanti: ora ne accoglie 6.000.



Dietro le colline a pochi chilometri, lo Stato islamico avanza. “Siete venuti a fare un reportage sui profughi siriani e iracheni, ma l’anno prossimo verrete a farlo sui rifugiati libanesi”, ci dice suor Micheline, una monaca maronita che raccoglie i bambini sfollati e cerca di continuare a far sì che ricevano un’istruzione. All’interno di un locale costruito con plastica, su un pavimento di fango, in cui c’è ghiaccio a ogni angolo, indica i suoi nuovi studenti: “Queste sono le vittime della violenza, le vittime di questa guerra infame”. Questi bambini e gli altri due milioni e passa che hanno perso la casa e che sono ammassati nel quartiere armeno di Beirut o a Arbil nel Kurdistan. Molti di loro chiedono un visto per andare negli Stati Uniti o in Canada. 



La pulizia etnica e religiosa in corso ha lasciato senza cristiani molti villaggi. Da alcuni luoghi, come Mal’ula, se ne sono andati gli ultimi che parlavano ancora la lingua di Gesù, l’aramaico. Sono le vittime di una guerra civile all’interno del jihadismo. Come lo sono state anche i vignettisti di Charlie Hebdo, gli ebrei al supermercato e i poliziotti uccisi a Parigi.

C’è un conflitto interno all’Islam che colpisce tutti. Noi europei credevamo di essere al sicuro: ci siamo risvegliati con dolore. Il conflitto ha il suo epicentro in Medio Oriente, ma è ormai globale. Il wahabismo (sunnita) dell’Arabia Saudita, con l’obiettivo di condurre un progetto ideologico all’interno dell’Islam, ha voluto creare un’alternativa allo sciismo dell’Iran. È la lotta di sempre. Sono convinti che il Califfato scomparso agli inizi del XX secolo può essere rimesso in piedi. Pensano che cento anni non siano niente nella storia dell’Islam. E lottano per la leadership. 



Questo sunnismo doveva interrompere il corridoio sciita che si estende dall’Iran al Libano meridionale (Hezbollah) e che passava attraverso l’Iraq di Al-maliki. Arabia Saudita e Qatar hanno creato prima il mostro di Al Qaeda e poi quello dello Stato islamico. Non c’è più bisogno di alimentarli, poiché sono ormai autonomi. Sono addirittura fuori controllo e lottano per aver visibilità e risalto. I combattimenti tra Al Nusra (filiale di Al Qaeda in Siria) e lo Stato islamico mostrano bene quale sia la situazione. E questa lotta è arrivata fino a noi. Quale miglior colpo che uccidere “europei blasfemi” per guadagnare posizioni?

Di fronte alla minaccia jihadista, l’Occidente dovrebbe fare un esercizio di sincerità. In primo luogo, dobbiamo riconoscere i nostri errori politici in Medio Oriente. Sono molti. Abbiamo sbagliato con l’invasione dell’Iraq. Abbiamo sbagliato ad accettare informazioni da Al-maliki. L’ex presidente iracheno ingannava tutti raccontando storie false, mentre il suo esercito, corrotto e smantellato, si stava ritirando di fronte all’avanzata degli islamisti. 

Abbiamo sbagliato nel conflitto siriano. Non abbiamo ascoltato quello che ci hanno detto i cristiani di quel Paese: già nel 2011 spiegavano che l’opposizione non aveva consistenza e che Assad, tiranno spregevole, era il male minore. Ma ingenuità occidentale ha lasciato che l’Esercito siriano libero si trasformasse in pochi mesi nel covo di decine di migliaia di terroristi provenienti da tutto il mondo. 

Abbiamo sbagliato a fidarci della Turchia, che lascia aperte le proprie frontiere in modo che i terroristi che provengono da tutti gli angoli del globo possano arruolarsi con i jihadisti. Sbagliamo se pensiamo che il conflitto tra sunniti e sciiti sia un bene perché lascia in pace Israele. E ci sbagliamo, infine, se consideriamo che l’accordo Sykes-Picot del 1916, con cui si è messa fine all’egemonia ottomana nella regione, non serva più. Quel compromesso ha creato nazioni multiconfessionali in cui convivono sunniti, sciiti, drusi, cristiani, yazidi, alawiti e molti altri. Non era una cattiva idea. Accarezzare ora il sogno di paesi monoconfessionali, come già prefigura Netanyahu, è un’utopia molto pericolosa.

La sincerità per affrontare la jihad richiede anche di riconoscere la debolezza dell’Europa. Il nostro caro Vecchio continente esporta jihadisti in Siria e Iraq. Ci sono 2.000 combattenti francesi nelle fila dello Stato islamico. Sono nostri figli, non sono stranieri. Di fronte al vuoto in cui crescono, cercano nel nichilismo violento una via d’uscita. Come la ricercarono i loro nonni nel terrorismo degli anni ’70. È il terribile fascino della morte, uccidere ed essere uccisi, quando la vita ha smesso di essere un’esperienza attrattiva.

È ingenuo invocare, sulle bare dei disegnatori di Charlie Hebdo, i valori dell’Illuminismo. Magari questi valori fossero vivi! Se così fosse non saremmo caduti nella trappola di uno scontro di civiltà cercato con intelligenza dai jihadisti per guadagnare seguaci. Invece i principi dell’Illuminismo sono diventati slogan vuoti. Non significano niente per i ragazzi delle nostre periferie.

Sulla neve che copre i campi di Deir el Ahmar, quando Suor Micheline accarezza la testa di uno dei suoi giovani amici siriani si intuisce che la sua è un’esperienza all’altezza della situazione. L’esperienza che consente a questa maronita di carattere forte di dedicare il giorno e la notte, con passione e umorismo, a coloro che hanno perso tutto.