Non è detto che le cose che cambiano le sorti del mondo siano le più clamorose o evidenti. Molte volte l’inizio di qualcosa di nuovo è impercettibile, ma altrettanto reale e inesorabile come l’erba che cresce.
Lunedì mattina, alla fine di una lunga malattia, a Brooklyn, a poca distanza da dove qualche settimana fa era stato ucciso un poliziotto negli scontri razziali che hanno infiammato l’America, è morto Frank Simmonds, uno dei tanti afroamericani di New York e uno dei tanti malati.
La sua vicenda umana in realtà non è quella di uno fra tanti, fa anzi emergere qualcosa di speciale, proprio in un momento della vita degli Stati Uniti e del mondo dove sembra sempre più difficile la convivenza fra etnie, religioni e razze diverse.
Frank era felicemente sposato, aveva quattro figli che adorava e un lavoro regolare. La sua vita passata era stata però tutt’altro che lineare. Proveniva da una famiglia della classe media. All’età di diciassette anni la madre muore di cancro. La malattia e la morte della mamma sembrano a Frank il culmine della mancanza di senso che la vita ha per lui come per molti. La droga, il modo per cercare di dimenticare la dura realtà, lo porta in breve tempo a vivere di espedienti e a condividere l’esistenza dei senza tetto, per quasi dieci anni.
Una vita precocemente sprecata come tante, se non fosse che quasi casualmente Frank incontra una ragazza bianca, Rita. Nasce tra loro un’amicizia che diventa presto amore con radici profonde ancorate alla fede cristiana della donna. Rita ridona a Frank la speranza di vivere, lo convince a riprendersi in mano e a curarsi seriamente.
Il percorso è duro ma Frank scopre con la fede in Cristo un conforto e una ragione in più per lottare. Supera la dipendenza dalla droga, trova un lavoro e sposa Rita. La sua profonda autenticità e il suo stupore per quanto incontrato colpisce così tanto gli amici di Rita della comunità di Comunione e Liberazione di New York, che lo vogliono come loro responsabile. Desiderano guardare uno che dice di avere ricevuto tutto e di vivere di gratitudine. “In sua presenza era più facile sentirsi liberi, guardati senza essere misurati e calcolati, come se ci fosse sempre una possibilità praticabile di gusto, di vita – dice di lui Susan, un’amica – nessuno come lui era capace di vedere la mia libertà”.
Dal matrimonio nascono due splendidi bambini, ma la storia non è come quelle dei film di Frank Capra. E il lieto fine non accade perché le cose “vanno bene”. Dopo qualche anno Frank si ammala di cancro. E in questa situazione affiora tutta la stoffa della sua esperienza: vive la malattia lavorando e vivendo normalmente finché può con lo stesso volto di prima, pieno di un sorriso pacifico e profondo, colmo di positività, offrendo quel che soffre in semplicità come partecipazione al sacrificio di Cristo.
Fino agli ultimi giorni dove nell’hospice in cui è ricoverato non smette di ringraziare medici e infermieri per il loro lavoro e di comunicare a parenti e amici la pace e la speranza che gli rimangono in quella devastante esperienza che è la malattia. Fino a morire il giorno dopo la fine del New York Encounter, meeting pubblico organizzato dai suoi amici a Manhattan, quasi a non volerli disturbare prima e avendo offerto la sua sofferenza per loro.
Storiella natalizia postuma? No, fatto che sconvolge lo scetticismo borghese di una società stanca, anche quando sembra unirsi contro la violenza.
In questo mondo moderno dove sembrano aver già vinto cinismo e nichilismo, come dicono giornali, televisioni, opinionisti, Frank rappresenta l’autentico nuovo mondo dove il desiderio di felicità e la fede sono più forti e vincenti. Dove non c’è circostanza sociale che predetermina la vita di un uomo, non c’è razza che divide, non c’è degrado da cui non si possa uscire, non c’è malattia che uccide la speranza.