Platone contro Tsipras

Grecia e Ue sembrano pronte a negoziare una dilazione del debito di Atene. Nel frattempo, dice FERNANDO DE HARO, non si possono ignorare tre segnali importanti

La fonetica è simile a quella spagnola e italiana, persino a quella francese. Sebbene la tonalità delle parole risulti strana, conviene prendere alcune lezioni di greco moderno, specialmente dopo la vittoria di Syriza. La sporcizia e il caos di Atene, la solitudine del Partenone, distante sulla sua collina bianca, e l’abbondanza di gatti non possono essere una scusa per non cercare di imparare qualcosa dalle elezioni di domenica. 



Il governo di Tsipras non rappresenterà certamente un cataclisma per l’euro e l’Ue. Il leader di Syriza non è un kamikaze, sa che l’uscita dall’euro o lo scontro frontale con Bruxelles porterebbero più sofferenze per i greci. È stata questa sofferenza e non l’entusiasmo che ha reso possibile la sua vittoria. Tsipras ha ben chiaro che non hanno votato per lui, ma per punire il Pasok e Nuova Democrazia. E nella capitale comunitaria sono consapevoli del fatto che non si può rovinare il progetto europeo per la scadenza di un debito di 240 miliardi, una quantità di soldi che tutti sanno che la Grecia non è in grado di pagare e di cui si può accettare una dilazione. Già nel novembre del 2012 sono state prese misure ragionevoli per allungare i termini di pagamento e consentire l’adozione di un piano sociale di emergenza. 



Le parti sono quindi pronte a negoziare, ma comunque il caso greco ha lanciato tre avvertimenti che conviene considerare per il bene del sud dell’Europa e per tutto il Vecchio continente.

1. I miglioramenti economici non devono essere rovinati dal populismo. Samaras ha esibito un bilancio positivo: nel 2014 il Pil è cresciuto quasi dell’1%, la disoccupazione è scesa e, senza considerare gli interessi sul debito, si è raggiunto un surplus di bilancio. Questi risultati non sono serviti a Nuova Democrazia per vincere, né la serietà del Pasok, quando il Paese stava sprofondando, ha impedito che i socialisti diventassero una forza marginale. È la mancanza di politica che fa crescere il sogno di soluzioni utopiche.



2. L’astrazione delle formule della troika ha causato un danno quasi irreparabile sulle persone. Il Fmi, l’Ue e la Bce hanno applicato dal 2008, anno dello scoppio della crisi, ricette ideologicamente coerenti, ma distruttive. Per fortuna la deflazione ci ha risvegliato. La ribellione di Draghi alla Merkel con il Quantitative easing può evitare che il danno sia maggiore. La Grecia è stato il luogo dove gli errori dell’Europa hanno fatto più danni: è stato un errore farla entrare nell’euro, compiere il primo (2010) e il secondo (2011) salvataggio, chiedere un taglio delle pensioni, dei servizi sanitari e una maggior disciplina fiscale. È come se si fosse voluto far pagare i greci per il loro grande peccato: occultare un deficit del 12,7% nel 2008. 

La moneta unica, figlia del marco, ha portato avanti negli ultimi anni il difetto paterno che assolutizza la disciplina fiscale come espressione massima della morale europea. Ma l’Europa sono gli europei, sono le persone prima che questa ossessione per l’inflazione portata al parossismo, espressione della paura borghese nei confronti del futuro.

3. In nessun caso è un bene che vincano i populismi. C’è chi pensa che l’Europa abbia bisogno di una tragedia per svegliarsi, per scuotersi, perché si passi dal sonno antropologico a un momento di lucidità e vivacità. Per questo ritiene che alcuni anni di mal governo populista possa aiutarci ad abbandonare la nostra condizione di bambini viziati. Ma non è altro che un retaggio del pensiero marxista: aumentare le contraddizione può essere un bene per la rivoluzione, ma non per la gente. La Grecia non cammina verso l’abisso, però perderà molto tempo sotto la guida di Syriza, e l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un’Alba Dorata.

L’Europa, quando è fedele alla sua essenza, ammette l’imperfezione politica e incoraggia la paziente costruzione lenta e quotidiana, lontano da l’incubo che parla di un cielo preso d’assalto. Alla periferia di Atene, nel bosco in cui Platone fondò l’Accademia, si possono sentire ancora le sue critiche alla demagogia.

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