Datato 4 ottobre 2014, giorno della festa di San Francesco, è stato reso noto l’altro ieri il messaggio del Papa per la Quaresima che — nel rito romano — prenderà il via il prossimo 18 febbraio. La liturgia della Chiesa non è un orpello di secondo piano rispetto alle grandi questioni umane e culturali del presente, ma rappresenta il modo con cui Essa educa il popolo di Dio a vivere nella storia e a giudicare tutto. Fra tutti i tempi liturgici, poi, quello quaresimale è proprio quello più decisivo, sia per l’antichità della sua tradizione sia per l’alto valore simbolico che esso ha assunto in diversi contesti della cristianità.
In Italia, ad esempio, alcune città nel medioevo festeggiavano il Carnevale come il periodo in cui l’intero ordine sociale era messo in discussione, ravvisando nella realtà — nei meccanismi politici e culturali del tempo — il vero ostacolo al compimento del desiderio del cuore umano. La Quaresima dei cristiani — dinnanzi a questa lettura del mondo — richiamava tutti all’evidenza che il problema, quando una società non funziona ed è ostaggio dell’ingiustizia e della miopia della ragione, non risiede mai nelle strutture sociali o filosofiche che la sorreggono, ma sta sempre nell’Io del singolo, nel dramma della persona stessa. Ne è emerso un tempo particolare — forte — in cui il popolo può essere educato a guardare a sé e alla propria esperienza umana come al punto sorgivo di ogni disagio e di ogni fatica: infatti, se nella vita qualcosa non torna, il problema non è la vita, bensì l’Io che la affronta.
In base a queste semplici considerazioni non è possibile derubricare il messaggio quaresimale del Papa ad un “appuntamento fisso”, ma è necessario attribuirgli un posto di prim’ordine nel Magistero del Pontefice proprio per il fatto che esso tende, ogni anno, ad esprimere le linee educative che il popolo cristiano è chiamato a non perdere di vista per affrontare le cose, la totalità delle cose, da una prospettiva realmente umana. Sarebbe facile per Francesco dire che il nostro sforzo di cristiani nel mondo dovrebbe oggi consistere nella “riforma della Chiesa” o nella “ripetizione della Verità”, ma il Papa è perfettamente consapevole che tutto ciò potrebbe cambiare le strutture o suscitare entusiasmi, ma mai — in definitiva — convertire l’Io.
Per questo il Pontefice mette al centro del suo messaggio la “globalizzazione dell’indifferenza” partendo dal fatto che Dio non è indifferente alle lacrime e al dolore dell’individuo, mentre l’uomo — spesso e volentieri — si mostra incapace di sentire tutto il sapore amaro del pianto e del bisogno del proprio fratello.
E’ successo così a Caino, ai fratelli del patriarca Giuseppe o alla moglie di Osea: c’è un cuore duro che ci rende sordi alla vita dell’altro e che ci fa cominciare ad affrontare ogni circostanza non dalla realtà, da quello che l’altro mendica, ma dalla nostra idea di Verità, progressista o conservatrice che sia, violentemente appiccicata sopra ad un’esperienza che — di fatto — non è la stessa nostra.
Come il Faraone dell’antico Egitto, sordo al lamento del popolo oppresso dalle circostanze, così anche noi diventiamo a nostra volta dei piccoli Faraoni sordi che tutto farebbero fuorché ascoltare ciò che si leva dalla vita di chi ci sta vicino. È facile dire all’altro che cosa dovrebbe fare, è difficile fargli veramente compagnia, accoglierlo, avvertire dentro di sé l’eco di un grido che assomiglia terribilmente al nostro.
Dividendo il messaggio in tre parti, il Papa chiede anzitutto alla Chiesa di non rinchiudersi in se stessa, ma di essere un’oasi di misericordia nel deserto che attraversano gli uomini. Egli poi si spinge oltre e chiede a tutte le comunità, parrocchie o movimenti, di saper guardare ai poveri che bussano alle loro porte e che rappresentano visibilmente il povero che abita dentro ciascuno di sé. Infine Francesco invita ciascuno a compiere l’esodo, quell’uscita dal proprio ego che è l’essenza della missione della Chiesa e che si realizza nell’incontro con l’altro, nel rapporto con qualcosa di vivo, magari “piagato” o “imperfetto”, ma vivo.
A molti tutto questo potrebbe apparire bello, perfino suggestivo, eppure in ultima istanza fondamentalmente spiritualistico rispetto alle esigenze impellenti dei nostri giorni, inadeguato ai tempi che stiamo sperimentando. Eppure è questa la strada attraverso la quale la Chiesa ci guida a riprendere contatto con noi stessi, con quello che siamo e con il dolore che sentiamo: è la vita dell’altro che ci viene indicata come farmaco, come rimedio, e sono le sue esigenze, per quanto espresse con istanze a volte non condivisibili, a mostrarci qual è il suo e il nostro vero bisogno.
Al di fuori di questo sguardo l’altro diventa un ostacolo da scartare (esattamente come accade nella società capitalista, ultima figlia della “cultura dello scarto”) o qualcuno da convincere, qualcuno che “non ha ancora capito il punto della questione” e che — dentro la Chiesa — viene simpaticamente insultato e tacciato di ignavia.
La cosa più triste cui si assiste ai nostri giorni è proprio il formarsi di gruppuscoli cristiani autoreferenziali che si riconfermano reciprocamente nel loro pensiero e nelle loro convinzioni, che si incitano e si alimentano l’un l’altro nascondendosi, di fatto, alla drammaticità delle istanze che la Misericordia di Dio ci pone attraverso il volto delle persone che incontriamo e che, magari, non sono proprio come le penseremmo noi.
Nel paradosso dei paradossi si può dire, non senza dolore, che proprio coloro che oggi incitano a “prendere il toro per le corna” e ad affrontare le sfide della storia con piglio combattivo e deciso, sono quelli che — in ultima istanza — fuggono dalla realtà vera, quella che abita dentro di loro e che ogni fratello, vicino o lontano che sia, continuamente fa riemergere con la propria libertà.
È molto facile diventare tifosi, coalizzarsi e sentire il calduccio dell’essere “lobby”, mentre è molto difficile — invece — entrare in contatto con sé e cogliere ciò che succede come una provocazione a capire di più il Mistero della vita.
L’indifferenza, quella vera, avviene quindi anzitutto verso di noi: occupati a salvare il mondo non ci rendiamo conto di stare perdendo noi stessi. Eppure è questo che sanguina ogni qualvolta che ci fermiamo, è questo che veramente ci interessa e che suscita in noi uno struggimento e una domanda che fanno sorgere, là dove siamo, vera missione, nuova cultura e autentico giudizio: solo un uomo consapevole e autentico riesce a incidere seriamente dentro la realtà.
Ciò che ci separa dal riconoscerlo è la paura della verità, dello spazio che si apre nel cuore di chi si ferma e comincia a guardare invece di fare, ascoltare invece di decidere. Quello spazio, quell’ultima vertiginosa solitudine della nostra libertà, fa paura, fa scandalo come fece scandalo il silenzio e il mistero aperto dalla Croce.
Ma è per questo che Dio ci ha dato la Chiesa: affinché, attraverso le parole del Papa e i gesti della comunità cristiana, il nostro cuore si spalanchi alla vita. Pronto a tornare davvero umano, pronto quindi ad incontrare l’unica Presenza che può davvero salvarci da ogni indifferenza. La Presenza amorevole e discreta di Cristo Gesù.