Il decreto del governo Renzi che obbliga le dieci maggiori Banche Popolari italiane a trasformarsi in Spa entro 18 mesi, è una vicenda emblematica della doppia crisi di identità in cui versa il sistema economico-sociale italiano.

Il governo ha mosso un doppio stato di accusa: contro la capacità insufficiente mostrata dalle Popolari di aiutare per via creditizia l’Azienda-Italia durante la recessione più lunga; e contro la funzionalità di un meccanismo di rappresentanza in apparenza altamente democratico come il voto capitario – “per teste” e non “per capitale investito” – in una cooperativa. 



Sono vere queste denunce? Prima di entrare nelle ragioni va detto che si avverte l’odore di un dirigismo centralista che vorrebbe apparire progressista ma mette mano a riforme senza giustificarne la ratio, anche quando, come in questo caso, persino i commentatori più autorevoli denunciano il rischio di speculazioni e di insider trading.



Non è la prima volta che si riforma pesantemente il mondo bancario: un quarto di secolo fa la legge Amato-Carli prescrisse una svolta analoga alle Casse di Risparmio e agli istituti di diritto pubblico: due terzi del sistema creditizio nazionale di allora. Ma, a differenza di oggi, allora l’adozione del modello di Spa e la nascita delle Fondazioni erano state preparate a lungo da governo, Parlamento e Banca d’Italia. Il percorso di cambiamento era trasparente e motivato dall’avvicinamento all’euro e dalla necessità di dotare l’Azienda-Italia di un’infrastruttura finanziaria competitiva in un nuovo mercato bancario integrato. Trasformare le grandi banche pubbliche in Spa era chiaramente funzionale a privatizzarle, aggregarle, ristrutturarle, ricapitalizzarle in Borsa. Ed è ciò che è avvenuto: Cariplo, San Paolo Torino e Imi fanno parte oggi di un unico gruppo, assieme all’Ambroveneto, alla Comit, al Banco di Napoli, alle Casse di risparmio di Padova, Bologna, Firenze. E Intesa Sanpaolo (non diversamente da UniCredit) anche grazie a questo accorpamento non è stata travolta dalla grande crisi.



Invece, con un colpo di spugna e senza discussione si sta cercando di stravolgere la parte più ricca del “credito popolare” radicato nel sistema-Paese da almeno un secolo e mezzo, un caso operante di sussidiarietà economica, almeno com’è stato finora.

Una vera discussione politico-economica avrebbe dovuto mettere a fuoco alcune domande ancora aperte a proposito delle Popolari che rappresentano un quinto del mercato bancario italiano, due gruppi (Banco e Ubi) fra i primi cinque del Paese, centinaia di migliaia di italiani soci.

E’ un settore “in crisi”? Se sì, quale crisi? L’azzeramento della governance cooperativa e del voto capitario è la ricetta corretta per raggiungere quali obiettivi? Le aggregazioni fra Popolari possono essere utili a risanarle e rafforzarle a beneficio dell’economia produttiva, della stabilità finanziaria, degli stessi soci? La governance cooperativa crea attriti non più accettabili alla riorganizzazione e alle fusioni? 

La trasformazione in Spa per decreto nell’arco di 18 mesi è una forma estrema di moral suasion per un comparto divenuto via via conservativo e poco incline ad ascoltare i richiami della politica creditizia? Una grande Popolare quotata in Borsa in che cosa si differenzia da una banca Spa quotata di eguali dimensioni? Come ritrovare l'”identità” che le grandi Popolari reclamano puntualmente per conservare la forma cooperativa?

Domande sentite come una perdita di tempo da una leadership politica che, dopo vent’anni di esperienza fallimentare di Seconda Repubblica, individua in un dirigismo bonapartista il modo per svecchiare il Paese senza chiedersi se veramente un dialogo serio tra Parlamento, corpi intermedi, esperti, non possa offrire soluzioni che salvaguardino il valore per la gente di queste realtà, lasciando il dubbio di volerle asservire ad interessi speculativi che già nel recente passato hanno spolpato con false privatizzazioni molti degli asset ex pubblici del Paese.

Tuttavia, se questa è la prima questione aperta c’è n’è una altra, altrettanto grave. I vertici delle Popolari, attraverso la replica della loro Associazione si sono limitate a promettere una pura battaglia di lobbying per annullare il decreto. Anche loro hanno eluso il punto, rinviando ancora una volta il confronto con il cambiamento; quello cui – in fondo – la legge Amato chiamava anche loro fin dai primi anni ’90.

Eppure, per centinaia di migliaia di italiani è un dato oggettivo che negli ultimi anni molto non abbia funzionato nel credito popolare: il valore dei titoli in Borsa sono crollati come quelli di molte altre banche (mentre tradizionalmente il loro valore era andato consolidandosi nel tempo), e soprattutto, di credito allo sportello ce n’è stato troppo poco per tutti.

Il rito dell’assemblea annuale dei soci, inoltre, ha perso la sua funzione, sia quando ha seguito la tradizione plebiscitaria, sia nello sfociare in scontri fra fazioni. Banche “sistemiche” a livello nazionale, come sono le grandi Popolari, non sono più compatibili con una governance impropria. Diciamo la verità: in molti casi non domina la volontà popolare ma lobby autoreferenziali che vogliono godere delle loro rendite di posizione finché possono, sorde agli interessi della gente e dimentichi del bene comune.

Le Popolari, guidate spesso da governance che hanno perso identità, sono arretrate dalla loro tradizionale prima linea del finanziamento all’impresa sui territori.

Questo è quindi il secondo vulnus metodologico che si vede nella vicenda: la resistenza fortissima a autoriformarsi è un esempio tra i tanti dell’involuzione dei corpi intermedi in Italia. Persa la ragione ideale della loro diversità, sciolto il legame con la loro origine ideale,  cessato l’impegno educativo a una visione più alta della realtà anche economica, svuotati termini come sussidiarietà, solidarietà, sviluppo, i corpi intermedi tendono a diventare corporazioni che difendono le loro élite dirigenti, i loro interessi particolari. 

E, perdendo la coscienza di essere parte di una costruzione comune, diventano oggetto di attacchi da parte di chi non ne capisce il loro valore storico impegnato come è a disboscare, buttando spesso via il bambino e l’acqua sporca.

Se qualcuno ama ancora la res publica e pensa che la capacità storica del nostro Paese di riformarsi “dal basso” sia ancora, come nel passato (vedi movimenti cattolico, operaio, liberale) la chiave del progresso, batta un colpo e mostri la sua vitalità e la sua capacità di autoriformarsi. E’ il momento di ritornare a essere popolo e a parlarsi nel popolo, come recita il nome a cui non si vuole rinunciare: Banca Popolare.