È stato detto che «la più grande opera del genio è rimessa nelle nostre deboli mani» (non sto a sottolineare che l’autore di questa frase è Charles Péguy, sennò sembro un po’ fissato con questo autore. In un recente articolo sono stato definito, sicuramente con intento benevolo, uno «specialista» di Péguy, ma ciò che mi lega a lui non è affatto il pedantesco e un filo maniacale atteggiamento di chi si fissa su un particolare e se ne appropria nei dettagli più minuziosi diventandone, appunto, noioso specialista che affigge gli altri con la propria particolareggiata competenza. Piuttosto sento Péguy come un amico e come tale mi viene in mente spesso; essendo poi lui un amico molto intelligente, trovo di frequente illuminante quello che mi dice).

Che «la più grande opera del genio è rimessa nelle nostre deboli mani» si vede chiaramente quando si paragonano diverse interpretazioni di un medesimo brano musicale. Me ne sono accorto di recente ascoltando il celebre quarto movimento della sinfonia «Dal nuovo mondo» di Antonin Dvorak in due differenti esecuzioni. La prima è quella di Gustavo Dudamel, il giovane e vulcanico direttore venezuelano, proposta nella maestosa cornice dell’aula Nervi in Vaticano, resa ancora più solenne dalla presenza di papa Benedetto XVI. 

Già dall’attacco si capisce che Dudamel punta sul coinvolgimento emotivo, del resto evidente in lui stesso. La musica esce sonora e potente dall’orchestra come un fluido infuocato, un gorgo che travolge, soprattutto quando propone la famosa melodia che domina tutto il brano. Il quale è ricco di momenti in cui la massa sonora si attenua fin quasi a scomparire, riducendosi al canto malinconico di pochi strumenti, come di indiani che inneggiano alla luna attorno al fuoco acceso nell’immensa prateria, dei quali Dvorak in America aveva studiato la musica. Ma poi riprende in un poderoso crescendo che Dudamel guida canticchiando, agitandosi e accompagnandolo col corpo, come stesse danzando sul podio. 

Sentiamo ora lo stesso pezzo eseguito dai Münchner Philarmoniker sotto la becchetta di Sergiu Celibidache. Il direttore di origine rumena è ormai vecchio e quasi impedito nei movimenti, tanto che deve rimanere seduto su un alto sgabello. Non può e soprattutto non vuole concedere niente all’effetto travolgente, al fluido che avvolge e trascina. Vuole piuttosto che gli ascoltatori si rendano pienamente conto di quanta musica c’è in quel brano, di quanti passaggi si possono perdere se ci si lascia andare alla corrente sonora, di quanti sottofondi e contrappunti Dvorak ha messo nella sua sinfonia, di quanti spazi di emozione si aprono al di sotto del fluire del motivetto che tutti conoscono. 

Il gesto di Celibidache è contenuto e più che incitare gli orchestrali sembra chiedere loro di trattenersi per scavare più in profondità nella musica che stanno suonando. Così quando il tema a tutti noto scoppia è veramente un uragano inatteso e quando l’orchestra fa un passaggio in pianissimo introduce in profondità che acuiscono ancora di più nell’ascoltatore l’atteggiamento di silenziosa attenzione.

Le «deboli mani» del primo direttore mi hanno trascinato nella musica di Dvorak, quelle del secondo me l’hanno fatta sentire.