Il caso dei vigili urbani romani che non si sono presentati al lavoro nella notte di San Silvestro ha sollevato un’ondata di comprensibile indignazione nell’opinione pubblica. Nella mesta ovvietà del fatto di cronaca e delle cifre oggettive, un tale evento si è imbattuto in una condanna estesa e convinta che lo ha imposto all’attenzione dei giornali nazionali. Una tale riprovazione, per l’ampiezza che ha manifestato, esprime un disagio che va al di là dell’episodio in sé, ma è la conseguenza di almeno due fenomeni preesistenti ed esprime imbarazzo dinanzi all’emergere di un terzo.

Il primo è dato dalle non poche vicende che hanno visto per più di una volta i dirigenti di questa categoria nell’occhio del ciclone. Come quella che nel gennaio 2010 portò l’allora sindaco di Roma Walter Veltroni a revocare l’incarico al comandante dei vigili urbani della capitale, per avere usato un permesso per disabili perso da un’anziana, al fine di poter parcheggiare la propria vettura personale in divieto di sosta con rimozione forzata. O quella dell’arresto nei primi mesi del 2011 del capo dei vigili urbani di Roma, per avere fatto irregolarmente vincere un appalto ad una società che si occupa di pulizia delle strade dopo ogni incidente. Un fatto tanto più singolare quanto più la stessa persona, l’anno successivo, sarà candidata a presidente della commissione giudicante per il concorso per l’assunzione di vigili urbani. E non si tratta di casi isolati se si ricordano fatti più antichi, come lo scandalo delle “rimozioni d’oro” delle auto in divieto di sosta, esploso nel 2008. 

Il secondo dei fenomeni preesistenti è invece costituito dall’accusa, spesso immeritata, di un mancato controllo del territorio: dal monumento eretto abusivamente al Circo Massimo (tre metri per tre in una delle aree più visibili della città) nel gennaio 2014 e passato inosservato per due mesi prima che ci si rendesse conto che era privo di qualsiasi autorizzazione, al suk di merci abusive nelle vie del centro storico, al racket delle elemosine ed a quello dei centurioni romani, dei banchi ambulanti pronti a esigere prezzi stratosferici da turisti e pellegrini. Fenomeni dipendenti dall’inadeguatezza della legislazione in vigore, ma dei quali sono proprio i vigili a pagare il prezzo, sia in quanto accusati di sostanziale inutilità pratica, sia in quanto costretti alla frustrante inattività dinanzi ad abusivismi di ogni sorta.

Si arriva così al terzo fenomeno costituito dall’ispessirsi di difficoltà oggettive che hanno portato nella capitale problemi di dimensioni e di ampiezza impensabili anche fino a dieci anni fa. Lo shock dell’immigrazione clandestina ne costituisce il primo e più deflagrante indicatore. 

A questo si sommano, ma in parte si riconnettono, fenomeni come il traffico di droga, la prostituzione, i racket di ogni tipo, l’escalation di forme di violenza assolutamente gratuita, nella quale si sommano tanto i regolamenti di conti all’interno delle varie micro-aree di criminalità diffusa, quanto le più semplici liti ordinarie che trascendono immediatamente in gesti inconsulti e dagli esiti fatali.

I vigili urbani sono in mezzo a tutto questo. Non si tratta solo di un aumento del lavoro, ma di un vero e proprio salto di qualità delle tensioni e dei conflitti; tensioni e conflitti che rendono indispensabile riscrivere le regole, riorganizzare le forze, predisporre interventi adeguati, anche sul piano dello stesso codice penale. Molto è stato certamente fatto, ma è bene ricordare come sia dentro un tale contesto che il vecchio corpo dei vigili urbani si trova ad operare. Indignarsi, rintracciare gli assenteisti, applicare le sanzioni già esistenti è necessario, ma lo è ancora di più — ed in modo ben più urgente — attrezzare la città in modo sempre più efficace per fronteggiare sfide inedite. 

Indignarsi e basta è un atteggiamento farisaico: meglio evitare di limitarsi alla sola indignazione ed alla conseguente sanzione, per porre mano anche ai problemi di fondo di recupero di una città rapidamente precipitata, al pari delle altre metropoli europee, all’interno di una globalizzazione inevitabile con la quale dovrà necessariamente fare i conti.