C’è un passo di un vecchio libro di Zygmunt Bauman su Modernità e Olocausto che merita di essere riletto e meditato nell’attuale situazione, con l’Europa sotto la pressione di centinaia di migliaia di profughi e la presenza minacciosa di un fondamentalismo che rischia di crescere e diventare ogni giorno più spietato. Bauman sta parlando dell’Olocausto e delle eventuali responsabilità di chi poteva salvare degli ebrei e non lo ha fatto per banale e umanissima paura; a questo punto fa l’osservazione che ci interessa: «Io non sono sicuro di come reagirei di fronte a un estraneo che bussasse alla mia porta e mi chiedesse di sacrificare me e la mia famiglia per salvargli la vita. Questa scelta mi è stata risparmiata. Ma sono sicuro che, se avessi negato un rifugio a chi me lo chiedeva, sarei pienamente in grado di dimostrare a me stesso e agli altri, dopo aver calcolato il numero delle vite salvate e perdute, la piena razionalità della scelta di respingere l’estraneo. Sono anche certo che proverei una vergogna irragionevole, illogica, ma assolutamente umana. E tuttavia credo che, se non fosse per questo sentimento di vergogna, la mia decisione di respingere l’estraneo continuerebbe a corrompermi fino alla fine dei miei giorni».
Dobbiamo subito sgombrare il campo da due possibili fraintendimenti. Innanzitutto è ovvio che la situazione attuale non è quella, unica, dell’Olocausto (anche se in qualche caso si può già parlare di un rischio di genocidio); e tuttavia i principi in gioco sono gli stessi: si tratta semplicemente di come essere uomini, non necessariamente di fronte a situazioni eccezionali, ma sempre. In secondo luogo deve essere altrettanto ovvio che non è in questione un’accoglienza indiscriminata e dissennata; ponendo questa precauzione non penso al banale calcolo numerico di quanti profughi può accogliere ogni paese, questione che spesso si riduce a un’ultima difesa del proprio egoismo e comunque ci distrae dal vero problema. Penso piuttosto al fatto più concreto e immediato che non possiamo aprire le porte, oltre che ai profughi, ai loro carnefici; così come sarebbe stato assurdo ai tempi dell’Olocausto accogliere un ebreo e far entrare in casa con lui un SS che si spacciava per una delle sue vittime. Questo però è un problema di controllo che compete agli Stati e alle organizzazioni sovranazionali che con essi devono collaborare per rendere possibile a tutti di vivere in pace. Uno Stato non può esimersi da questo dovere e i suoi cittadini lo devono esigere proprio per poter esercitare la solidarietà che li differenzia dagli animali.
E questo accenno alla solidarietà ci fa ritornare al discorso di Bauman e a tre questioni che ci devono interrogare tutti e che mettono in luce un atteggiamento la cui essenzialità va ben oltre il solo caso contingente dei profughi e del fondamentalismo.
La prima cosa che viene richiamata dal passo di Bauman è il senso di responsabilità: come siamo arrivati a questo punto? Nessuno può tirarsi fuori rispetto a questa domanda e neppure può nascondersi dietro il solito gioco del rimpallo di responsabilità tra i vari potenti di questo mondo, che ogni volta danno la colpa di tutto allo schieramento opposto e in questo modo si autoassolvono: è un gioco di cui si può accontentare chi vuole soltanto conservare un potere o vuole conquistarne uno più grande, senza fare i conti con le persone, con gli occhi di chi gli vive accanto. Noi non possiamo, ciascuno di noi non può perdersi in questo gioco perché il senso di responsabilità se lo gioca al mattino quando si guarda allo specchio, quando sta di fronte alla moglie (o al marito), ai figli che ha in casa, agli amici o ai compagni di lavoro che incontra ogni giorno. Chiedersi per che cosa vive, come tratta gli altri e come si attende di essere trattato è una cosa che ciascuno di noi può fare senza fatica, non dipende da nessun potente e crea un’atmosfera che alla lunga si rivela invincibile: c’è qualcosa di fronte a cui ciascuno di noi deve rispondere e che si situa ben più in alto dei risultati di un’elezione o dei privilegi che possiamo conquistare, disinteressandoci del modo con cui li otteniamo. In queste condizioni, anche per i padroni del mondo non sarà più tanto semplice nascondersi dietro i giochi del potere. Il problema, per tutti, sarà semplicemente un altro, più radicale: tu per che cosa vivi? Io — non il mio gruppo, la mia associazione, il mio paese, la mia civiltà, ma io — per che cosa vivo, cosa mi attendo, cosa devo attendermi per i miei figli e dai miei figli? Ingannare gente abituata a questa domanda non sarà più molto semplice per nessun potere.
La seconda cosa che ci richiama Bauman è il senso di solidarietà; «il lupo ha ragione, il cannibale no», diceva un vecchio adagio dei campi di concentramento: un uomo che non vede nel proprio simile un soggetto degno di sostegno e di aiuto, ma solo un nemico o un oggetto di conquista, perde una delle caratteristiche che rende l’uomo tale.
La terza cosa che ricorda infine Bauman è la piena umanità e persino la necessità del senso di vergogna: chi non si vergogna di essere venuto meno a una delle caratteristiche che lo rendono uomo potrà anche vivere o, meglio, funzionerà, magari in maniera perfettamente razionale e logica, ma secondo una logica che è quella delle macchine e non degli uomini.
La questione è quale vita sia più ricca, affascinante e, in ultima analisi, conveniente.