«Non voglio stare dalla parte dei boia, ma neppure di quelli che, con una definizione onorifica, vengono chiamati “vittime della storia”». Confesso che questa frase di Iosif Brodskij, poeta russo premio Nobel nel 1987, mi ha sconcertato, svelandomi un equivoco in cui cadiamo facilmente: la rassegnazione all’impotenza, di fronte a eventi mondiali che sembrano soverchiare ogni possibile iniziativa della persona, e la giustificazione della propria sterilità, motivata dall’impossibilità di agire. Se, tutto sommato, non stare dalla parte dei boia non è difficile, stare dalla parte delle vittime sembra non solo più semplice (per quanto a volte faticoso, doloroso), ma addirittura «onorifico». Ma questa rassegnazione – queste giustificazioni – sono colpevoli. Brodskij era stato costretto a emigrare nel 1972, dopo alcuni anni di lager, ma anche in esilio, nella solitudine, non si sentiva con questo esonerato dalla responsabilità nei confronti della storia e dell’umanità. E questa responsabilità, che è in particolare quella dell’arte e della poesia, sta nel «ridestare nell’uomo, volente o nolente, il senso della sua unicità, dell’individualità, trasformandolo da animale sociale in un “io” autonomo». Proprio per questo letteratura e poesia in particolare – continua Brodskij – non sono apprezzate dai «padroni dalle masse, dagli araldi della necessità storica»: perché nei «piccoli zeri» anonimi, a cui questi stessi signori delle masse riducono gli uomini per poterli tenere in proprio potere, si produce una strana metamorfosi, e ciascuno di essi acquista «un piccolo volto, non sempre grazioso, magari, ma umano». La prosa straziante, dedicata alle grandi tragedie del nostro tempo, di Svetlana Aleksievic, i versi di Brodskij e dei grandi poeti della generazione precedente, come Mandel’štam, la Cvetaeva e la Achmatova, che non sviluppavano tematiche politiche, fanno ugualmente paura ai potenti – e non perché denuncino crimini che, nella cultura relativistica in cui viviamo, potrebbero essere facilmente messi a tacere o smentiti, ma perché spostano il discorso dal piano delle idee, facilmente confutabili, a quello dell’esperienza di un «io» autentico, e perciò inconfutabile, irriducibile. Quanti amici – anche buoni cattolici, mi chiedono che cosa stia succedendo in Russia e in Ucraina, e dopo qualche battuta troncano con un certo fastidio i miei racconti sui semi di vita che stanno nascendo ovunque in questi paesi incalzando: «E Putin? E Obama? Chi ha ragione? E chi ha torto?..». Quasi che la fede possa andar bene nell’alveo della vita privata, mentre nel campo della grande storia non ci sarebbe altra alternativa che quella politica, tra boia e vittime. Eppure io – noi tutti – incontriamo ogni giorno, nei luoghi della vita di tutti i giorni, dei protagonisti della storia, degli «io» vivi, che con la bellezza semplice, disarmata e disarmante della propria esperienza restituiscono un volto a «piccoli zeri» anonimi, impotenti di fronte a giochi inevitabilmente più grandi di loro anche se magari «impegnati» nel sociale, in economia o in politica.

Una conversazione casuale in treno, tra un giornalista (cattolico) che fa ritorno dal Meeting di Rimini senza aver raccolto altro che scetticismo: «Era tutta una facciata, che noia…», e una ragazza che ha visitato la mostra dedicata al metropolita Antonij di Surož, dove si era sentita «letta dentro» ad ogni passo. A lei si stringe il cuore, non riesce a far finta di niente, gli racconta della mostra e tira fuori dalla borsa il catalogo dicendogli: «Prenda, ecco il catalogo, il Meeting è questo!!!». Lui resta di stucco e prima di scendere le dice – con un sorriso che fino a quel momento lei non gli aveva visto: «Grazie. E buon ritorno. Continui così». Un incrocio casuale, un volto finalmente «non comune», cioè non anonimo né impersonale, che riapre lo sguardo e restituisce una prospettiva umana.