In uno dei suoi Pensieri (precisamente il numero 339 dell’edizione curata da Carlo Carena), Blaise Pascal scrive: «Tutti i corpi, il firmamento, le stelle, la terra e i suoi reami non valgono il più piccolo degli intelletti, poiché questo conosce tutto ciò, e se stesso, mentre i corpi nulla». E aggiunge: «Da tutti i corpi assieme non si saprebbe far uscire un piccolo pensiero: è impossibile, appartiene a un altro ordine». È così stabilita con chiarezza la differenza infinita che passa tra tutte le cose materiali e la ragione dell’uomo, che sola ha coscienza sia di quelle cose che di se stessa. Stabilita con chiarezza certamente, ma quando si tratta di trarne le conseguenze operative — per esempio valutare un piccolo pensiero più importante della soddisfazione materiale — quella chiarezza rischia di svanire e, alla fine, risultare astratta.
Cosa che succede in modo ancora più facile e normale se si considera la seconda parte del pensiero pascaliano, quella cui il filosofo mirava fin dall’inizio, quando scriveva: «La distanza infinita esistente fra i corpi e l’intelletto raffigura la distanza infinitamente più infinita fra l’intelletto e la carità». Dice dunque: «Tutti i corpi insieme e tutti gli intelletti insieme e tutti i loro prodotti non valgono il minimo moto di carità». Infatti: «Da tutti i corpi e gli spiriti non si saprebbe trarre un moto di vera carità: è impossibile, appartiene a un altro ordine, soprannaturale». È un’affermazione sorprendente e si fa fatica a crederci. O, meglio, non faccio nessuna difficoltà ad ammettere teoricamente che Pascal abbia ragione, ma nella quotidiana graduatoria delle importanze, nella usuale classifica di ciò che conta, beh qui la concretezza delle cose fisiche o la giustezza del pensiero di solito mi sembrano ben più importanti di questo sfuggente «minimo moto di carità».
L’ho capito con chiarezza attraverso un episodio banalissimo. Stava finendo la giornata lavorativa e inaspettatamente mi telefona un amico che non sentivo da un po’ di tempo; i soliti scambi di domande e risposte e poi, avendo io molta fretta di chiudere l’ufficio e andarmene a casa, mi accorgo che quell’amico invece desidera prolungare la conversazione. In una frazione di secondo devo decidere se concludere la telefonata con una qualche credibile giustificazione oppure assecondare il mio interlocutore; decido (mi sembra la scelta più “caritatevole”) per la seconda ipotesi e finisce che sto al telefono per venti minuti.
Alla fine sono genericamente contento di aver ascoltato il mio amico, ma mi rendo conto che la mia valutazione di quel che è successo non colloca quel «minimo (e forse ancora meno che minimo) moto di carità» al suo posto giusto, al rango che gli spetta.
In fondo penso che se avessi trascorso quel tempo a rilassarmi o a leggere qualcosa che mi interessava o a scrivere un editoriale avrei fatto qualcosa di più rilevante ed utile: il criterio di misura dell’importanza e dell’efficacia dell’azione l’affido ancora alla visibilità quantificabile dei «corpi» o, al massimo, alla brillantezza del «pensiero». Ma l’inoppugnabile definizione di Pascal resta lì come un affascinante richiamo.