La conclusione dei lavori di questo Sinodo passerà certamente alla storia per l’attenzione con la quale l’universo mediatico ha fatto da cassa di risonanza, alimentando echi e diffondendo, accanto alle informazioni, semi-notizie, annunci shock e lettere riservate. Si apre ora, nonostante questo ma non separandosi da questo, un periodo di riflessione sul documento finale che tuttavia rischia di essere letto solo secondo il metro analitico degli esperti sui testi pontifici, là dove ciò che è omesso o non sufficientemente esplicitato rivela tensioni e indica le soluzioni mancate. Ha senso? Certamente sì nella ricostruzione degli equilibri — inevitabilmente complessi — che caratterizzano le diverse sensibilità dei padri sinodali. Certamente no, se ci si vuole porre in sintonia su ciò che verrà percepito e raccolto dall’opinione pubblica, cattolica o meno. 

Sotto l’aspetto della percezione diffusa, quella destinata a marcare di sé tutto il clima morale che si muove intorno alla figura di questo pontefice, sono le parole di Papa Francesco a costituire la cornice essenziale nella quale il documento sinodale sarà letto e compreso.

Il primo elemento da prendere in considerazione è allora da rintracciare nelle parole dirette del Papa proferite nella messa a Santa Marta: “I tempi cambiano e anche noi dobbiamo cambiare continuamente”. Si tratta di una frase che, isolata da quanto ha detto immediatamente dopo, autorizza ad una semplificazione troppo rapida. Esiste infatti, per Papa Francesco, un modo errato di guardare che è quello conformista. Uno sguardo di questo tipo rivela esattamente l’opposto: il tralasciare di guardare per sottoscrivere le opinioni dominanti e le passioni emergenti. 

Se si vogliono cogliere i segni dei tempi non si tratta di accodarsi ai luoghi comuni ed alle opinioni della maggioranza, ma occorre farsi aiutare dal silenzio: “Prima di tutto è necessario il silenzio: fare silenzio e osservare”.

Papa Francesco sembra essere più che mai convinto di essere dinanzi ad un’epoca e ad un mondo per il quale resta comprensibile (ed insuperata) la metafora dell’ospedale da campo. È un’umanità ferita quella che è accampata sui sagrati e varca i portali delle chiese. I segni attuali che mostra sono quelli delle percosse, delle cadute, delle devianze di tanti tragitti personali piagati dall’individualismo autoreferenziale, dove il soggetto si segnala per la sua lunga serie di appuntamenti mancati.

Occorre proprio il silenzio per comprendere il testo finale del Sinodo, per il quale “la coppia e la vita nel matrimonio… rimangono imperfette e vulnerabili”. C’è quindi la coscienza del male e degli errori che questo comporta. “Per questo è sempre necessaria la volontà di convertirsi, di perdonare e di ricominciare”. Conversione, perdono e nuovo inizio costituiscono i veri segni dei tempi che vanno colti. 

E questi segni non sono affatto delle nuove frontiere ma delle trincee, non rivelano “nuovi confini della famiglia” bensì la coscienza degli errori e dei danni fatti: “…come Pastori, ci preoccupiamo per la vita delle famiglie… desideriamo accompagnarle con cuore grande anche nelle loro preoccupazioni, dando loro coraggio e speranza”. Ascoltare, fare silenzio, vuol dire rendersi conto delle fatiche e dei dolori, dove tanto le prime quanto i secondi non hanno nulla di casuale, ma non di meno meritano di essere affiancati dalla speranza.

Lo scenario sul quale si distingue il profilo della famiglia, per quanto caratterizzato da grandi cambiamenti, è segnato anche da un “individualismo esasperato” portatore di tensioni e sventure. Dinanzi ad un tale individualismo la famiglia rappresenta certamente una contro-cultura, per la quale va ancora pensata come “un dono di Dio”. 

È in questa cornice che compare, come chiave di lettura, l’accoglienza di un’umanità in ricerca, dove “occorre accogliere le persone con comprensione e sensibilità nella loro esistenza concreta, e saperne sostenere la ricerca di senso… anche in chi ha sperimentato il fallimento o si trova nelle situazioni più difficili”. È la Chiesa dell’inclusione e dell’accoglienza, non della legittimazione delle devianze. Accettare ed accogliere chi ha fallito è la chiave di volta dell’accoglienza cristiana, presuppone la coscienza del fallimento, il riconoscimento del vuoto, l’urgenza di una ricerca in corso. Misericordia e accoglienza, ma anche silenzio, riflessione e preghiera sono intimamente coerenti tra loro. Ci vuole il silenzio per ascoltare, la riflessione per capire e la preghiera per farsi dare quelle virtù che non ci si può procurare da sé: la forza per intervenire e i suggerimenti per farlo nel modo migliore. Solo così la misericordia è reale e l’accoglienza è possibile.