Non sfuggono a nessuno le difficoltà che sembrano oggi accerchiare la famiglia, difficoltà delle quali la crisi economica costituisce solo una spiegazione apparente e che, in realtà, le preesistono. È infatti in discussione il modello tradizionale dell’unione coniugale a favore di rapporti meno vincolanti e soprattutto “reversibili”, dai quali cioè sia possibile sottrarsi. Una simile richiesta si fonda sull’idea che il vincolo coniugale sia un dato culturale, quindi relativo a comportamenti e valori sempre e comunque rivedibili. Si sottostima così la possibilità che dietro una forma culturale, in sé relativa, possa comunque celarsi una verità universale, quindi assoluta, sull’uomo e sulla donna. Proprio per questo il fenomeno della diminuzione di quanti scelgono il cammino coniugale non è affatto un problema culturale, ma tocca quelle corde sensibili dell’animo, dove la cultura dice qualcosa della verità dell’essere.
La china nella quale molte coppie finiscono per scivolare, ogni volta che le circostanze, cambiando le condizioni dell’esistenza ordinaria, fanno emergere le diversità di carattere e le divergenze di atteggiamento, appare tanto più scoscesa quanto più il modello culturale ereditato è stato fondato su quelle che prima si chiamavano “affinità elettive” ed oggi si definiscono “gusti e interessi comuni”. Gusti e interessi che possono cambiare, ma soprattutto, una vita in comune che può fare spesso emergere aspetti di sé fino a quel momento sconosciuti. Ci si scopre diversi da come si credeva di essere, magari con aspetti della propria persona che non si pensava di possedere, o con il riaffiorare di vecchi problemi irrisolti e frettolosamente archiviati.
Si cela qui il lato più impegnativo della dimensione coniugale: quello della scoperta di se stessi e dell’altro. Dove non è affatto sufficiente che quest’ultimo sia amato per i gusti che ha o per lo stile di vita che pratica, ma deve esserlo per la scintilla di vita che lo anima e lo rende unico. Ed è proprio da questa affezione all’essenziale, al dato immanente dello spirito che lo caratterizza, che scaturisce la coscienza della stabilità della relazione coniugale e dell’invariabilità della scelta fatta. Questo modello relazionale che costituisce il lato più impegnativo della dimensione coniugale è rimasto a lungo inespresso, lasciando risiedere al suo posto il principio delle semplici affinità tra due individualità. Si è compiuto così un grossolano errore di prospettiva. È infatti solo all’interno della relazione con l’altro nella sua essenzialità che prende corpo la dimensione generativa. Una coppia aperta alla vita non è affatto una coppia come le altre, ma vive una dimensione fondativa dove non si tratta di fare né di acquisire, ma di essere pronti a realizzare un cammino, tanto più possibile quanto più ci si lega a ciò che costituisce la specificità dell’altro, la scintilla che lo anima. La famiglia, cioè l’apertura alla dimensione generativa, è allora una scelta radicale della coppia che la porta ad essere altro da una semplice unione di “gusti e interessi comuni”.
Essa è infatti molto di più di un semplice desiderio di affezione e cela la volontà di giocarsi in tutto e per tutto, accettando che altri, i propri figli, irrompano nella propria esistenza. Ogni figlio che arriva implica sempre la scelta del mare aperto, comporta necessariamente il coraggio di alzare le vele e l’accettare di essere costantemente rimessi in discussione, scoprendo i propri limiti e superandoli. “Lui e lui solo, le ha veramente – mio caro amico – le relazioni pericolose” scriveva Péguy parlando del padre di famiglia, inteso qui come il vero eroe, l’unico reale avventuriero.
Si capisce allora perché si faccia fatica a “fare famiglia” e la sua sola idea freni molti. Infatti, all’opposto della famiglia, come suo anonimo avversario, si cela l’individualismo stesso, inteso qui come quella quieta autoreferenzialità nella quale serenamente ci si struttura e che si difende da qualsiasi intromissione. È un “io” che non vede la relazione come essenziale, che non si arrende “al volto dell’altro”, che non accetta di “lasciarsi fare”. L’idea del cammino lo turba, quella di un possibile mutamento anche; né c’è un qualsiasi altro che possa apparirgli sufficiente. Ed è proprio la crescita esponenziale di un tale individualismo narcisista a fare da sbarramento ad ogni volontà di unione generativa. Più ci si addentra dentro le nebbie di un “io” autoreferenziale, meno si è disponibili ad una relazione che vincoli e, proprio attraverso questo, sia capace di generare la vita e di farla crescere. Ci si sbarra così la strada alla propria stessa realizzazione: quella che risiede al di fuori di sé stessi, in un altro provvidenziale per il quale valga la pena cambiare ogni cosa, lasciando che la vita arrivi.