Si sente “Sin ti no soy nada” (“Senza te non sono niente”) mentre aspetto il caffè. Questa canzone di Amaral è vecchia (faceva parte di un disco del 2002), ma occupa tuttora un buon posto nella classifica dell’edizione spagnola di “Rolling Stone” e la mettono ancora in alcune caffetterie.

Al primo sorso del caffè rileggo un sondaggio di alcuni giorni fa, l’ultimo importante in vista delle elezioni. Lo hanno fatto prima che Rajoy cominciasse a compiere gesti interessanti di fronte alla “insurrezione” indipendentista della Catalogna. Il Partido popular è salito al 29,1% e certamente ora sarà più in alto visto il modo con cui il Premier sta gestendo la crisi catalana. Ci sono molti indecisi, mentre Ciudadanos si consolida come terza forza al 14,7% (altri sondaggi lo collocano al secondo posto). I radicali di Podemos sono invece crollati al 10,8%, perdendo otto punti in un anno. Il prossimo governo quindi non sarà necessariamente radical-socialista. Il ritornello della canzone “Sin ti no soy nada” è insistente.

Dai sondaggi passo alla biografia su Luigi Giussani scritta da Alberto Savorana, che è stata tradotta in spagnolo ed è in libreria. Viene riportato un intervento del 1975 in cui si parla di cristianesimo e politica. Giussani spiega che il primo livello di incidenza politica di una comunità cristiana è la sua stessa esistenza: parole che hanno un valore rivoluzionario in Spagna. In quel periodo era iniziata la Transizione verso la democrazia. Il desiderio giustissimo e necessario di superare il franchismo e le soluzioni integraliste del XIX secolo insieme alla necessità di lasciarsi alle spalle ogni tipo di confessionalità dello Stato portarono a una aconfessionalità della società. Per non correre rischi, il fatto cristiano doveva essere privato e la sua dimensione comunitaria spiritualizzata. In un contesto tecnocratico sembrava che l’unica soluzione moderna per i cristiani spagnoli fosse liberale. L’interpretazione dei “cristiani per il socialismo” cadde presto per la sua incapacità di dare risposte alle sfide del momento.

L’interpretazione liberale è ancora dominante, anche di fronte alle prossime elezioni. Per questo la constatazione di Giussani del 1975 può suonare strana. Ma, se si guarda bene, esprime chiaramente il modo con cui il fenomeno cristiano compare in una società plurale all’inizio del XXI secolo. Un caso per tutti: la carità della comunità cattolica è stata un fattore decisiva durante la crisi. E Giussani diceva che la moltiplicazione e la crescita delle comunità cristiane vitali e autentiche non poteva smettere di produrre un movimento sociale rilevante.

Nessuno si spaventi: constatare questo fatto non significa desiderare un nuovo confessionalismo. La libertà è una condizione che non si potrà mai mettere da parte. La presenza cristiana non è tale se pretende di determinare il contenuto delle leggi appoggiandosi sulla fede. 

Benedetto XVI lo ha detto chiaramente al Bundestang: “Il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto”. Una ragione che non ricorre agli argomenti della rivelazione, ma che è sanata, rinnovata dall’esperienza cristiana e che può offrirsi a tutti come ipotesi.

Rimettersi alla ragione, intesa in questi termini, è un invito a scoprire, anche in ambito politico, nuove soluzioni e strade per affrontare i problemi comuni. L’interpretazione liberale o quella integralista, che hanno dominato negli ultimi secoli, hanno dato tutto per scontato e hanno evitato di fare un lavoro decisivo. Cosa può offrire l’esperienza cristiana a una società plurale e libera? Cos’ha che può valere per tutti?

Diciamolo chiaramente: alla Spagna non conviene avere un governo radical-socialista. Non conviene alla comunità cristiana e al Paese. Ma è un po’ poco il fatto che, alla vigilia delle elezioni, quando la vita politica arriva alla sua massima ebollizione, l’unica cosa che possono fare i cristiani è appoggiare due partiti per evitare un brutto risultato. Non basta difendere la libertà di educazione o quella religiosa senza capire e proporre i contenuti che si possono dedurre dal loro esercizio, contenuti che possono aiutare tutti.

Da un po’ di tempo non suona più “Sin ti no soy nada” ed è finito anche il caffè, ma le parole della canzone mi risuonano nella testa, così come sento il sapore amaro sul palato. La cosa principale dell’esperienza cristiana è il valore che dà alla relazione personale. Tutto è affidato a un incontro tra un tu e un io. Tutta la sua morale e tutto il suo edificio dottrinale si basano su relazioni apparentemente fragili che sono state decisive nel corso della storia per costruire l’Europa, per la conquista dei diritti umani, per riconoscere il valore degli altri popoli, ecc. Forse questa è la categoria politica più interessante per una società dove aumenta la frammentazione, che tende a trasformarsi in un’aggregazione di monadi. Un certo liberalismo crede sia possibile tenere in piedi la vita comune sommando interessi particolari. La crisi ha però reso evidente che i legami sociali forti rendono capaci di affrontare le sfide di un mondo globalizzato.

Dare valore alle relazioni ha molte conseguenze politiche: porta a riconoscere che c’è qualcosa che ci unisce prima della differenza ideologica, che lo Stato non può essere un mero vigile nel traffico del mercato, che l’economicismo fa male all’economia, che conviene non soffocare le cellule sociali vive, che sono, di fatto, una grande risorsa per l’erogazione di servizi, se vogliamo creare un nuovo sistema di welfare o se vogliamo creare una vera società multiculturale.

“Che darei per vedere il tuo volto…Senza te non sono niente”. Questa stupida canzone pop mi è rimasta in testa in una mattina in cui i sondaggi mi risultano insufficienti.