Ancora un caso di doping dall’est; un tempo venivano per lo più dalla Ddr, adesso viene direttamente dalla Russia e, questa volta pare proprio una cosa enorme. Un tempo si era arrivati a riderci sopra: era rimasta negli annali la battuta di un grande campione italiano di atletica, Eddy Ottoz, che alla domanda sul perché avesse la barba aveva risposto che gli atleti italiani e le atlete sovietiche non si radono mai prima delle gare.

Un tempo si rideva, ma adesso non c’è più la voglia di ridere, perché si è più coscienti del male che la pratica del doping produce e poi perché si sperava che comunque queste vicende non fossero più lo spunto per nuovi scontri politici o non potessero più nascere per motivi politici. E invece siamo da capo, pare anzi che siamo andati indietro.

Mentre le reazioni della stampa russa d’opposizione non mostrano alcuna sorpresa per uno scandalo che era annunciato da tempo e rispetto al quale le autorità non avevano fatto nulla (se non vantarsi di «una lotta senza precedenti» contro il doping), la reazione ufficiale è fortemente irritata e quasi tutta giocata sull’indignazione politica di fronte al presunto complotto occidentale che starebbe cercando un’altra maniera per umiliare la Russia e per farle pagare la sua politica in Ucraina e l’intervento in Siria.

Ancora una volta le dietrologie politiche determinano il giudizio sulla realtà, che è comunque quella di un movimento sportivo fortemente inquinato e rispetto al quale si dovrebbe cercare di intervenire con un’opera di risanamento e di salvaguardia delle parti sane. La reazione ufficiale invece ancora una volta fa prevalere la preoccupazione per l’immagine sulla preoccupazione per la realtà; importa stabilire chi ha portato allo scandalo e per quali interessi, mentre i fatti stessi che hanno portato allo scandalo passano decisamente in secondo piano, con una giustificazione diffusa non solo in ambito governativo e che è stata stigmatizzata proprio in queste ore da Vasilij Utkin, un famoso giornalista sportivo: si dice che «il doping fa parte della vita. Doparsi non è un male come non è un male dare la bustarella al poliziotto. E poi si dopano tutti, ma beccano soltanto noi perché sono tutti contro di noi». Ovviamente non è così, non è mai stato così, commenta Utkin, ma così si potrà continuare la politica dell’immagine e con questa si potrà dopare all’infinito tutta l’opinione pubblica.

E così non la si finirà più col doping, sportivo o politico: non perché tutti hanno qualche fialetta nell’armadio, ma perché è sbagliato il principio dal quale si parte. Lo sport ha indubbiamente un valore di immagine, un valore simbolico; come ogni cosa rimanda a qualcosa d’altro e di più grande, ma non è qui il punto: il principio sbagliato è che la grandezza, anche la grandezza di un paese si valuti sul numero delle medaglie d’oro, sui record sportivi, su una qualsivoglia forza, ivi compresa quella dello sport.

Sulla base di questo principio non è necessario essere disonesti e malvagi per scatenare una guerra (sportiva o meno) e cercare di vincerla a ogni costo: anche le persone più oneste cominciano a non concepire più un mondo in cui non ci si debba fare strada con qualsiasi mezzo, e così sono condannate a farsi la guerra e a vincerla a dispetto di ogni regola e senza più nemmeno capire che fanno un male.

Lo sport dovrà trovare i modi per rispondere a questa mentalità che lo renderebbe sempre meno interessante per la gente. Fuori da ogni propaganda e dai discorsi del potere, è questo l’invito che viene ripetuto più o meno da tutti.

In attesa che gli uomini di sport trovino le vie per questo cammino di purificazione, può forse essere interessante ricordare un esempio capace di indicarci una via per uscire dal circolo vizioso di una potenza da conquistare a ogni costo e delle giustificazioni con cui poi si cerca di ricostruirsi l’immagine perduta.

Mentre scoppiava lo scandalo del doping e scoppiava questa campagna di sterile difesa, senza far troppo rumore, senza che i grandi giornali ne parlassero, e mentre la Russia ufficiale continuava a restaurare il mito della sua grandezza difendendo persino Stalin e giustificando le sue vittime in nome della grandezza del paese, un gruppo di persone ha lanciato una campagna in totale controtendenza, chiamata «Ultimo indirizzo»: ogni cittadino verifichi se dal suo caseggiato, durante gli anni dello stalinismo più duro venne portato via qualcuno, caduto vittima del grande terrore, e si faccia carico di acquistare una targhetta che ne conservi la memoria, e poi si preoccupi di chiedere l’autorizzazione ad affiggerla agli attuali abitanti del caseggiato: per attestare un cambiamento di mentalità, chiedendo perdono per non essersi opposti al male o per non averlo fatto con sufficiente forza; chiedendo perdono perché nessuno possa più fare il male sentendosi a posto, sentendosi giustificato con la scusa che «io non c’entro» e che poi così fan tutti, per sopravvivere, per diventare grandi e per costruire la grandezza del proprio paese; chiedendo perdono non per fare grande il proprio paese, ma per rendere onore alla sua grandezza che è stata deturpata, per rendere onore alla grandezza dell’uomo che si è cercato di distruggere e che invece si è riscoperto libero.