Negli Stati Uniti il numero dei giovani compresi tra i 15 e i 24 anni di età che si tolgono la vita è in costante aumento. Dal 2007 al 2013 è passato da 9,6 giovani ogni 100mila a 11,1. Nella sola università della Pennsylvania, negli ultimi tredici mesi, si sono suicidati sei studenti; quattro all’università di Tulane a New Orleans, nello stesso periodo; sei all’università di Cornell nello Stato di New York nel solo anno accademico 2009-10. I casi di studenti che soffrono di problemi psicologici legati ad ansia e depressione, secondo un recente studio, sono aumentati negli ultimi due anni del 13%. Allo stesso tempo, altra faccia del medesimo disagio sono le stragi nei campus degli ultimi anni che hanno fatto registrare numeri impressionanti.
Ogni storia è a sé, e sicuramente i giovani occidentali sentono le pressioni della competizione, aumentata anche a causa della crisi, dell’incertezza di un mondo che si allarga ma appare anche minaccioso, della solitudine di una situazione sociale sempre più disgregata con legami familiari sempre più labili. Non a caso da tempo si parla di “crisi del quarto di vita” per i giovani verso i venticinque anni.
Anche l’atteggiamento degli studenti americani negli ultimi anni, sottolineano gli esperti, è profondamente cambiato. Se prima un brutto voto all’esame significava delusione e desiderio di riscatto, adesso viene percepito come un errore imperdonabile. Studenti che sono sprofondati nella depressione arrivando a pensare al suicidio, raccontano delle pressioni non indifferenti da parte di genitori e docenti ad essere i migliori, a ottenere risultati più rimarchevoli, a dimostrarsi più competitivi.
“Ogni mattina l’amministrazione universitaria invia una e-mail magnificando i successi ottenuti da uno studente o da un docente”, dice Kathryn, una studentessa intervistata dal New York Times, che ha iniziato a far dipendere troppo la sua contentezza dal fatto che “gli altri erano felici per i miei risultati o perché le loro aspettative venivano soddisfatte”. Problemi di inconsistenza personale e di aspettative sbagliate, quindi.
Il mito dell’efficienza non è una novità, è tipicamente americano da sempre, nello studio come nella vita professionale. Riuscire a entrare nelle università più prestigiose è l’obiettivo a cui tutti aspirano: successo, privilegio, carriera assicurata. Il lavoro concepito come possibilità di arrivare sempre più in alto è parte della cultura americana (che oggi è stato esportato in tutto il mondo, Italia compresa). Il mito di Horatio Alger, autore del libro “Ragged Dick”, pubblicato nel 1867, intriso di etica protestante, ha rappresentato per lungo tempo l’ideale americano dell’uomo che da povero e straccione diventa ricco e potente, realizzando così “il sogno americano”. Eppure il sogno americano non era solo questo.
Un amico mi ha raccontato la storia di una cubana, figlia di uno dei fondatori del partito comunista, che viveva nell’isola con i più grandi privilegi. Nonostante questo a un certo punto scappa attraversando a nuoto un fiume messicano al confine con gli USA e chiede asilo politico. Al mio amico che quando la incontrò le chiese il perché rispose che aveva letto nella Dichiarazione di indipendenza statunitense che l’uomo ha il diritto a perseguire la felicità, cosa che non era scritto e detto da nessuna parte a Cuba.
In un mondo competitivo come quello moderno, l’idea di felicità è stata contrabbandata per successo a qualunque costo, soldi, potere. Ed è come se quest’ultima generazione stesse lanciando un grido di allarme inedito, che potrebbe significare: “ma io sono fatto per qualcosa di più che essere il miglior studente della mia università!”.
Sotto accusa sono anche i sistemi educativi, che hanno sempre meno l’obiettivo dello sviluppo pieno e integrale della personalità dei giovani. Il loro scopo dovrebbe essere quello di stimolare nell’allievo l’espressione delle sue potenzialità, realizzando una pedagogia del “successo” che non significa selezione, ma crescita della personalità in tutte le sue dimensioni, oltre che delle conoscenze e competenze. La società cerca dei “vincenti”: dalla scuola, al lavoro, al sociale; apparentemente non sa che farsene dei “mediocri”. Ma mediocri rispetto a cosa? Tante esperienze in campo educativo dimostrano che si possono valorizzare le capacità e le inclinazioni di tutti, evitando a tanti giovani di “avvitarsi” in percorsi di disistima e autodistruzione.
E poi, chi ha detto che la competitività faccia vincere sempre il migliore? Nella vita reale i compiti più interessanti non seguono il principio di competizione, bensì quello di cooperazione.
Un grande educatore come don Giorgio Pontiggia disse che “ragazzi che non andavano più a scuola e non studiavano più hanno ripreso a farlo, non perché noi siamo stati più capaci di insegnare la matematica e l’italiano, ma perché nella matematica e nell’italiano si è comunicato un senso, qualcosa che è più grande della matematica e dell’italiano: in altre parole abbiamo ridestato la persona”.
E qui il tema va più in profondità: l’espulsione dalla società odierna di un’ipotesi di significato globale.
In God we trust era il motto dell’America: questo Dio è morto o è stato accantonato, è rimasta una tradizione etica, una religione civile politeista, come fu per gli antichi romani, accettata purché rispetti il sistema costituito.
Il cuore dell’uomo non può cambiare, non può essere ridotto, la vita così va stretta: “Guardo l’orologio sul muro, le mani si muovono appena, non sopporto lo stato in cui mi trovo, a volte lsembra che le pareti si restringano. Oh Signore, che posso dire, sono così triste da quando te ne sei andato. Il tempo, il tempo mi scorre addosso, sola è l’ultimo posto in cui avrei voluto essere. Signore, cosa posso dire?”, canta Brandi Carlile, voce della generazione dei “Millennials”, nata a cavallo del secolo.
Qualcuno urla come nel quadro di Munch, qualcuno diventa ciecamente violento verso gli altri, qualcun altro verso di sé.