Gli attentati, Parigi e quella domanda di essere

Un attacco all'umanità, qualcosa di incomprensibile perché fatto da "esseri umani", come noi, eppure così contro di noi. Proprio questo occorre domandare chi siamo. COSTANTINO ESPOSITO

Dopo gli attentati di venerdì sera a Parigi quello che colpisce è l’impossibilità di usare le solite parole, come se le analisi e le spiegazioni si rivelassero a un tratto tutte inadeguate. Giuste, effettive, precise: eppure inadeguate. La strategia omicida (e suicida) dei terroristi islamici e il disagio delle banlieues, l’attacco sferrato all’Occidente “crociato” e il ruolo della Siria, l’odio per il principio laico della libertà e il reclutamento degli jihadisti tra i giovani nati in Europa. 



Che cosa nasconde questa comune, attonita incapacità di trovare parole adeguate ad un evento così incredibile e spiazzante? Cosa vuol dire, se lo stesso Papa Francesco, parlando con il direttore di Tv2000  afferma: «Io sono commosso e addolorato. Non capisco. Ma queste cose sono difficili da capire, fatte da esseri umani»? E difatti anche diversi commentatori sono stati quasi costretti — nell’insufficienza di tutte le altre parole per cercare di capire veramente quello che è successo — a parlare di un attacco o di una sfida estrema all'”umanità”. 



Ecco, forse questa è l’unica parola che descrive, o meglio segnala il problema drammatico dei nuovi fatti di Parigi, in cui ci pare di poter riconoscere il livello vero della sfida. E d’un tratto essa comincia a urgere, a chiedere di essere riconquistata nel suo significato, come se una cosa saputa per ovvia, scontatissima, tornasse a inquietarci. Un attacco all’umanità, qualcosa di incomprensibile perché fatto da «esseri umani», esseri come noi, eppure così contro di noi. 

Ad essere sinceri, l’umanità è il più delle volte (forse quasi tutte le volte) il nome di un appello retorico, tanto universale quanto vago. Giusto ma astratto. Qualcosa che ci portiamo addosso ma di cui tante volte diffidiamo, che non “sentiamo” quasi più come veramente nostra, tante sono le delusioni e le sconfitte cui essa è continuamente esposta nel nostro esistere quotidiano. Chi negherebbe la suprema nobiltà dell’imperativo categorico di Kant: «Agisci in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona che nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo»? E chi potrebbe negare che questo imperativo sia stato interamente bruciato nell’odio inumano, nella furia astratta, perché impersonale, dei terroristi che abbattevano ad uno ad uno i corpi dei ragazzi colpevoli solo di essere andati ad un concerto rock?



Ma dobbiamo andare sino in fondo alla domanda: perché nella notte di venerdì abbiamo avvertito in maniera lancinante che l’umano era stato annientato? E perché questo ci ha fatto ammutolire? La pietà per la sorte di altre persone innocenti, certo. Ma al fondo, penso, anche e soprattutto perché abbiamo percepito che si trattava di noi, di quell’umano che noi stessi siamo, e che tornava come a vibrare in noi, a chiedere, a ribellarsi di fronte al meccanismo cieco della disumanità e del nichilismo.

D’un tratto è diventato acuto il sentimento di noi stessi, del nostro esser nati, dello stare al mondo, della continua esposizione alla morte, e soprattutto del desiderio, della speranza di non morire. Di non morire mai. Vi ricordate di quando, da bambini, di fronte alla persona cara di nostro papà o di nostra mamma, li pregavamo, e quasi ordinavamo loro di non dover morire mai? E questa esigenza l’abbiamo riscoperta un po’ più grandi — ma non meno bambini nel cuore —, quando ci siamo innamorati. E per molti magari è tornata a farsi sentire, a percuoterci quasi, davanti alle immagini che scorrevano alla televisione da Parigi. E questa volta come una commozione, una tenerezza per sé stessi, per la propria umanità ferita e insieme bisognosa di tutto, cioè di niente di meno che dell’infinito.

Ed ora noi, impotenti di fronte alle meccaniche dell’odio, che cosa dobbiamo fare? Forse c’è una responsabilità di cui tutti possiamo essere protagonisti. Quello che possiamo fare è riconoscere semplicemente quel che siamo, il nostro essere “umani”, non tanto come un principio universale cui adeguarci o uno standard di prestazioni che sappiamo non potremo raggiungere mai, ma come una domanda di essere. 

L’umanità in noi non è mai un mero dato di fatto (tant’è vero che quando è solo questo l’abbiamo già persa o ci viene subito rubata); essa è piuttosto un’esperienza vissuta, che va ogni volta ricercata e “coltivata” in ciò che la rende irriducibile, insoffocabile, potente pur nella sua vulnerabilità. Anzi: potente perché vulnerabile. Noi siamo in fondo un bisogno che non si acquieta, di stare nel rapporto con l’«altro». Un altro che torni a dirci, e a farci certi, che non morirà mai.

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