Il Museo dell’Opera del Duomo a Firenze ha appena inaugurato il suo nuovo, magnifico, allestimento; che comprende, tra l’altro, una ricostruzione in scala uno a uno della antica facciata della cattedrale, corredata dai numerosi capolavori che la impreziosivano. Dal 1981 questo stesso museo ospita la Pietà cosiddetta Bandini di Michelangelo Buonarroti. Lo scultore ormai settantenne la stava preparando per la sua stessa tomba; quando si accorse che il marmo aveva un difetto, travolto dall’ira spaccò una gamba di Cristo, diede martellate qua e là e la abbandonò (la acquistò il Bandini che le dà il nome).
Il gruppo – disposto con una forte tensione verticale – si compone di quattro figure: a sinistra Maria Maddalena (che non è di mano michelangiolesca, ma di un discepolo) a destra la Madonna, il cui volto si confonde quasi con quello del Figlio morto. L’asse centrale è occupato dal corpo esanime di Cristo, sopra il quale si erge Nicodemo che con la mano destra solleva il braccio di Gesù e poggia la sinistra, in gesto di consolazione, sulle spalle si Maria. Questo Nicodemo ha il volto di Michelangelo.
Sempre a Firenze, in occasione del Convegno della Chiesa italiana, è stata allestita la mostra “Bellezza divina”, dove è possibile ammirare la Pietà di Vincent Van Gogh (la versione più piccola, proveniente dai Musei Vaticani, mentre l’altra si trova ad Amsterdam). Anche in questo caso siamo di fronte ad un’opera degli ultimi anni di vita dell’autore; soltanto che Van Gogh è morto, suicida, a soli 37 anni pochi mesi dopo aver dipinto questo quadro. Allora si trovava nella casa di cura di Saint-Rémy, dopo il burrascoso fallimento del consorzio artistico con Gauguin, e il gesto autolesionistico di tagliarsi il lobo dell’orecchio. I personaggi della Pietà, collocati all’imbocco della grotta sepolcrale, sono solo due: la madre in un gesto addolorato, che evidenzia le mani, rugose come quelle delle contadine dipinte da Van Gogh nella sua prima fase pittorica, e il figlio morto già semi avvolto nel sudario. Nella inusuale colorazione rossiccia dei capelli e della barba di Gesù (è l’unica volta che Van Gogh l’ha raffigurato) molti hanno notato un esplicito riferimento alle fattezze del pittore. Anche questo volto di Gesù è un autoritratto.
A più di trecento anni di distanza due sommi artisti trovano nella scena del compianto su Cristo morto lo spunto per raffigurare il proprio volto. L’annuncio che il figlio di Dio ha sofferto in un corpo d’uomo ha una potenza tanto dirompente che è difficile immaginare un modo più profondo per dire la propria più intima sofferenza. Che sia quella dell’anziano consapevole della morte, conscio del dramma di un mondo – quello del rinascimento classicheggiante – che finisce, testimone di una Chiesa frantumata dalla divisione. Che sia quella del giovane che voleva fare il pastore calvinista come il padre e poi si è dato corpo e anima alla pittura, senza essere né riconosciuto né capito, perseguitato da una psiche fragile.
C’è una differenza tra i due. Per Michelangelo Cristo è una amata alterità da guardare, invocare, a cui chiedere la propria salvezza. Per Van Gogh Cristo coincide con sé; forse è una riduzione intimistica; forse è una abissale immedesimazione. Forse è il cocente desiderio di andare, come accadrà al crocifisso, verso quella luce gialla del fondo, che dovrebbe essere il tramonto del venerdì e sembra l’alba della domenica.