E’ un’Italia che non ha perso il “desiderio”, controcorrente rispetto alla vulgata che ci vede fermi e viziati. Un’Italia che riesce ancora ad avere gli “occhi di tigre” contro tutte le tigri della nuova economia globalizzata, ma anche contro i vecchi leoni della concorrenza di sempre. E’ un’Italia – quella degli industriali delle macchine utensili, ma non solo la loro – che non soffre più la fame, ma che conserva una salutare memoria della fame che mordeva quando, nel 1945, dieci imprese fondarono l’Ucimu. Fame di cibo, di lavoro e anche di riscatto, di realizzazione personale e collettiva. E’ in questo humus che ha messo radici – tuttora salde – un settore che esporta i due terzi dei 5 miliardi di produzione stimata per il 2015. Un capitalismo fatto di capitali finanziari reali – cioé di profitti d’impresa continuamente reinvestiti da parte di aziende tipicamente familiari – e di altrettanto reali capitali umani, quell’accumulo di knowledge indispensabile all’eccellenza nella progettazione di robot.
I duecento associati dell’Ucimu non sono certo un’isola felice nell’Italia odierna. Luigi Galdabini, presidente dell’Ucimu, lo ha ripetuto più volte negli ultimi giorni: ospitando il Circolo del Sussidiario e poi durante la celebrazione ufficiale del settantesimo anniversario dell’Unione. Solo al termine di quest’anno il settore delle macchine utensili potrà parlare di uscita dalla grande crisi – se non proprio di ripresa effettiva – dopo il lungo buio prodotto dal collasso dei mercati finanziari e poi dalla recessione, soprattutto in Italia e in Europa.
Luca Orlando, l’inviato del Sole 24 Ore che ha scritto “La fabbrica delle macchine”, volume dell’anniversario Ucimu, ha raccontato un viaggio di tremila chilometri “fra imprenditori sopravvissuti”. Che però alla fine sono molti: e ciascuno forte di una strategia di sopravvivenza, anzi di proiezione in un futuro inesorabilmente nuovo. “Il produttore di macchine utensili – ha notato Gian Mario Gros-Pietro – è per sua natura un problem solver, deve quasi sempre elaborare una soluzione ad hoc per un’esigenza specifica di un altro imprenditore”. Chi pensa e fabbrica una macchina utensile dev’essere sveglio, rapido, flessibile. Forse per questo – sottolinea sempre Gros-Pietro – sono stati molti gli associati Ucimu a diventare casi da manuale nella “strategia di Tom e Jerry”: il topolino prevale sempre sul gatto che lo insegue (la pressione competitiva, un ciclo recessivo, la spinta dell’innovazione, eccetera) non solo perché è più veloce, ma anche grazie a un’abilità specifica nell’individuare nel muro la nicchia giusta.
Certo, la partita da vincere è sempre la prossima. E non sorprende che – riflettendo sui loro 70 anni assai più che festeggiandoli – gli industriali dell’Ucimu si sono interrogati: la crescita dimensionale sta diventando una variabile strategica prioritaria trasversale nel settore? La struttura proprietaria e finanziaria della larga parte delle imprese – ancora legata alla famiglia o alle persone – dev’essere ripensata con maggiore apertura a investitori professionali, a combinazioni industriali con gruppi esteri?
Per il sistema-paese, tuttavia, il “caso Ucimu” rimane un test per capire se abbiamo capito, se vogliamo capire: se la crisi rappresenta un punto di svolta per il Paese oppure se in fondo è una tappa inevitabile di un epilogo altrettanto scontato, un finale in cui l’Italia si avvia più o meno rapidamente verso il declino.
In economia esistono le medie ma anche, per fortuna, le varianze, cioè le misure della variabilità.
Davanti alla recessione l’Italia si è spaccata in due e la crisi ha approfondito il solco tra imprese: da una parte chi esporta e innova e riesce a battere anche la Germania, dall’altra il resto delle imprese, che purtroppo rappresenta la maggioranza. Imprese che boccheggiano in parte perché concentrate sul mercato interno, in parte perché sono poco inclini a competere e sono sussidiate e protette. In termini darwiniani si tratta di «animali» che non sono riusciti a cambiare adattandosi all’ambiente esterno.
Se per Germania e Giappone ciò che non è standardizzato spesso è un problema, mentre per noi è un’opportunità, una chance di rispondere in modo creativo al bisogno di un cliente: la capacità di interagire diventa così un vantaggio competitivo, a maggior ragione in un mondo in cui la velocità di obsolescenza dei prodotti cresce.
Queste aziende, e penso alle macchine utensili ma anche al settore del mobile, alla meccanica avanzata o al bio-tech, in effetti sono più forti di prima e in un certo senso questo è il risultato “positivo” della crisi.
Il nostro mondo può vincere rispetto ai paesi low-cost solo inserendo nei prodotti dosi sempre maggiori di conoscenza. Per questo, per valorizzare al meglio il nostro capitale umano, va rafforzato il rapporto tra mondo imprenditoriale e università che nel nostro Paese è ancora troppo debole.
C’è naturalmente dell’altro. Un sindacalista «moderato» qualche tempo fa mi disse che a suo avviso l’azienda era – cito testualmente perché l’espressione mi colpì – una vacca da mungere. Se questa è la mentalità non andiamo lontano. Ecco il problema di fondo dei nostri tempi, l’inversione logica dei concetti: la ricchezza, per poterla distribuire, devi prima produrla. Se questo è vero, la fabbrica è centrale. Questo concetto credo che non sia ancora «passato», l’imprenditore ancora oggi è visto come qualcuno che «traffica», che ha i soldi, qualcuno di cui diffidare. Solo dopo si capisce, quando le fabbriche chiudono, quando si presenta il problema reale dell’occupazione. E in quel momento è tardi.