Se non l’avessi letto su ilsussidiario.net dell’8 novembre non l’avrei neppure saputo. Distrazione mia senz’altro, ma non è che in giro se ne sia parlato troppo. Del resto a chi può interessare la notizia della morte di un vecchio prete ultra novantenne, per di più avvenuta in un lontanissimo posto chiamato Nitra, in uno stato, la Slovacchia, che non si sa nemmeno dove si trovi esattamente? Invece, quel prete ha avuto un’esperienza di vita speciale e sarebbe un delitto accantonarla frettolosamente; anche perché ha, credo, qualche puntuto insegnamento per il nostro presente.
Si chiamava Ján Chryzostom Korec. A 26 anni è diventato sacerdote gesuita nella Cecoslovacchia (ora non esiste più) piombata dopo la guerra nel baratro della dittatura comunista: per la fede cristiana lì non c’era posto. Infatti il giovane prete, ordinato clandestinamente vescovo nel 1950, a soli 27 anni… Interrompo il racconto per pregare il lettore di non lasciar passare distrattamente le succinte informazioni biografiche che sto dando: provi a immaginare se stesso a 27 anni che deve fare il vescovo in uno stato cristiano da oltre mille anni ma dove ora la fede è perseguitata, dove per mantenersi deve lavorare in fabbrica senza saper bene se e a chi poter svelare la propria funzione, dove… Nel 1960 Korec è arrestato e condannato a 12 anni di carcere; poi la passeggera «primavera» del 68 con la scarcerazione e quindi un nuovo arresto, la liberazione per motivi di salute e ancora il lavoro: non manager o giornalista, bensì spazzino e scaricatore di barili di catrame in un’industria chimica.
«La mia vita – ha detto in un’intervista pubblicata dalla rivista di Russia Cristiana nel 1987 – è stata radicalmente diversa da quella che avevo progettato in gioventù». Sfortuna di cui lamentarsi, dunque? No: «Noi non abbiamo scelto né il momento in cui nascere, né il luogo, né la situazione storica; l’importante è ciò che facciamo in quella data situazione e come rispondiamo al nostro compito. Sì, la mia vita è stata dura, soprattutto quei 24 anni vissuti da operaio sotto la pioggia e la neve… Ma né lo studio della filosofia o della teologia, né la preparazione di prediche e discorsi, mi avrebbero potuto far capire che cosa significhi la fedeltà a Dio come me lo ha fatto comprendere la fatica di restargli fedele dentro le condizioni della vita».
E quando la condizione è stata la cella di isolamento (di nuovo prego il lettore di provare a immaginarsi cosa possa voler dire), Korec si è organizzato per non diventar matto – che era probabilmente lo scopo dei carcerieri – e allora dedicava la prima ora del giorno alla meditazione (evidentemente senza aver testi sotto mano, ma affidandosi alla memoria), poi la celebrazione della messa (sempre a memoria e utilizzando qualche resto chissà come conservato della cena del giorno prima), poi ripasso sistematico delle amate filosofia e teologia, con domande e risposte ad alta voce.
Qui forse il carceriere avrà pensato di aver ottenuto lo scopo: quel prete irriducibile sta ammattendo. E invece no; dopo l’isolamento Korec si sentiva «forte come se avessi compiuto un corso di esercizi spirituali». E uscito di galera poteva dire: «Non ho mai desiderato (e non desidero neppure oggi) vivere una vita diversa da quella che ho vissuto. Ringrazio Dio perché mi ha concesso di non perdere il gusto della vita».
Era il 1987 e nessuno poteva immaginare che il comunismo sarebbe caduto di lì a poco e Korec non pensava di sicuro che Giovanni Paolo II gli avrebbe dato l’onore della porpora cardinalizia. Quel che conta, però, non è l’happy end, ma la lucidità e l’attualità dell’insegnamento: «La Chiesa [cioè ciascuno di noi] deve affrontare difficoltà e critiche. Le prime si vincono con la tenacia, alle seconde si risponde con al testimonianza della vita». Testimonianza di che? «La Chiesa non cade mai nello scetticismo e nella disperazione».