A Parigi non si è compiuto semplicemente un atto terroristico. Abituati agli anni delle stragi, alle bombe nascoste nelle sale d’aspetto ferroviarie, sui treni, nei cestini dei rifiuti o ancora, nelle discoteche e nei mercati, noi italiani facciamo fatica a renderci conto di come, al Bataclan, sia accaduto l’innominabile e l’impensabile. C’è infatti qualcosa di surreale e di obiettivamente patologico nell’uccidere guardando il volto di chi si sta uccidendo, in una regolare esecuzione durata ore. È la testimonianza di una regressione psichica, prima ancora di essere un atto di guerra. Ad Auschwitz per uccidere occorreva annullare le persone, togliere loro il nome cambiandolo con un numero di matricola. Poi, bisognava umiliarli facendoli dormire in spazi grandi quanto una bara, annichilirli in una routine quotidiana dove ogni personalità sarebbe stata destinata ad annullarsi. Infine bisognava denudarli per non guardarli nella loro singolarità e illudersi che quei corpi fossero, in fin dei conti, l’uno uguale all’altro e non più singole persone. E non bastava ancora: nel lugubre campo di sterminio occorreva l’espediente delle docce, per far compiere al gas quel lavoro di soppressione diretta di vite umane che, altrimenti, sarebbe risultato insostenibile.
Guardare il volto dell’altro destabilizza, ci rende incerti. Lo prova la pietà di cui tutti siamo capaci quando, guardando le foto dei terroristi, vi scorgiamo immediatamente dei tratti umani e il nostro odio riceve una battuta d’arresto. Usare la stessa violenza gratuita della quale questi si sono resi capaci ci appare contro natura e restiamo confusi. La pietà che ci caratterizza quando incrociamo il volto dell’altro separa radicalmente l’umano dal “non umano”. Tra la capacità di riconoscere il volto e fermarsi, e quella di rifiutarsi di riconoscerlo per eliminarlo passa il confine tra il bene e il male.
I nostri eurofobi del califfato non hanno avuto bisogno delle mediazioni presenti ad Auschwitz. Hanno di fatto potuto guardare nei loro volti ragazze e ragazzi della propria età e ucciderli direttamente, uno alla volta in una mattanza infinita, anche se non portavano un’uniforme, anche se non si era in zona di guerra, né in un campo di concentramento, ma a diverse migliaia di chilometri di distanza. La precarietà oggettiva dell’umana esistenza conosce oggi una nuova fonte di morte violenta: questa può provenire non solo dagli errori di automobilisti incapaci o sotto l’effetto di alcol o droghe, dai terremoti o dagli incidenti in montagna, ma può anche essere intenzionalmente provocata da chi, convinto di essere vittima di un’ingiustizia infinita, ha dichiarato guerra a tutto ciò che non solidarizza immediatamente e totalmente con la sua causa. Il Male radicale, la negazione totale dell’altro, le dimissioni dall’umano, il galleggiamento nella regressione psicotica, la perversione criminale hanno così preso forma in un potenziale eccidio senza quartiere. Si può usare il kalashnikov, un semplice coltello o anche la propria automobile, com’è accaduto a Nantes al mercatino di Natale, un anno fa.
È allora importante osservare come la prima urgenza consista proprio nel compiere il cammino opposto a quello degli assassini: là dove loro hanno disconosciuto i volti si tratta di recuperare le persone e i loro percorsi. Si tratta di portare alla più completa visibilità i profili di chi percorreva esattamente la strada opposta. Di chi si impegnava nel mondo, percorrendo la propria vocazione, dando forza e fede alla voce del proprio cuore. Anche quando la strada era lunga, come per Valeria Solesin: una ragazza che voleva studiare e capire — la sua tesi di laurea e il suo studio sulle asimmetrie di genere sul mercato del lavoro, presentato a Trento due anni fa, ne costituiscono un’incontrovertibile testimonianza — e che per farlo era disposta a studiare ancora a lungo, impegnandosi in studi di dottorato senza nemmeno una borsa di studio (in Francia non sono previste automaticamente) e accontentandosi di lavori precari.
I ragazzi del Bataclan sono altrettante storie di ricerca, di obiettivi da perseguire, di ideali professionali da realizzare. Esattamente all’opposto di chi la vita la nega a sé ed agli altri, queste persone la vita la stavano cercando e, quanti sono sopravvissuti, lo fanno ora ancora più di prima, come dimostra la vicenda di Sébastien. A chi ha pensato che fossero volti senza nome, definiti solo dalla loro appartenenza etnica e dalla loro collocazione geografica, si può rispondere iniziando il cammino opposto: restituendo nomi e volti, identità e memorie. Recuperando le loro storie e il loro tentativo di vita. Perché nessuna persona vale mai l’altra, perché ciascuno è indispensabile e, proprio per questo, ogni vita spezzata ci manca e non va dimenticata.