«Dare una mano agli altri aiuta anche me, mi sento bene nell’animo e so che la cosa è gradita ad Allah». Dopo aver ricevuto per un certo periodo di tempo scorte di viveri dal Banco alimentare, Hicham sente il bisogno di ricambiare l’aiuto, e si unisce al gruppo di volontari che nella parrocchia del suo paese in provincia di Milano prepara il pacco di alimenti per altri poveri come lui.
Domani, Giornata nazionale della Colletta alimentare, quando al supermercato ci imbatteremo nei volontari del Banco, non sarà superfluo ricordarsi di fatti come questi. Fatti che è bene non perdere di vista mentre, sgomenti per la violenza che insanguina il mondo, ci si continua a interrogare su quali modelli di convivenza tra culture e religioni diverse potrà vincere paure e insicurezze. Quella di Hicham – che tiene a sottolineare come nella cultura musulmana in cui è stato educato “è importante dare quanto ricevere” -, è una delle tante storie raccolte nel volume appena pubblicato dal titolo “Se offrirai il tuo pane all’affamato… Oltre lo scarto: la rete di carità del Banco Alimentare” di Giorgio Paolucci (ed. Guerini).
Storie di solidarietà, di integrazione e convivenza che diventano semi di grande speranza per il futuro. Quei semi che Sara, peruviana emigrata a Milano da dieci anni, vuole per i suoi due figli che anche quest’anno porterà con sé il giorno della Colletta perché «vedere tanta gente all’opera è uno spettacolo di gratuità da cui possono imparare come ho imparato io». Partecipare è comunque per lei «il modo più giusto per ringraziare di quello che ricevo».
Con la Giornata nazionale della Colletta alimentare, il Banco alimentare lancia la sua sfida più ambiziosa: «condividere i bisogni per condividere il senso della vita», come recita il suo slogan. Il valore dell’iniziativa di domani, infatti, non si esaurisce nel pur importante obiettivo di recuperare alimenti per le persone indigenti (secondo i dati Istat usciti questa settimana, in Italia più di una persona su quattro è a rischio di povertà o esclusione sociale). Consiste soprattutto nell’essere un utile strumento di educazione popolare alla condivisione, alla solidarietà, al desiderio di bene che c’è in ogni uomo. Cosa fa sentire «insieme», in modo non artificioso, a chi è in condizioni di vita magari tanto diverse? È la coscienza di essere parti di un destino comune buono: questo fa venire voglia di mettersi in moto e di spendere in modo concreto i talenti ricevuti.
Nelle pieghe delle relazioni che si instaurano tra persone, fatte di sguardi e piccoli gesti più che di parole, scorre quello che è proprio dell’uomo «in quanto uomo» e che, soprattutto in situazioni limite come è la povertà alimentare, può emergere in modo sorprendente. Così accade che, magari all’inizio inconsapevolmente, ci si ritrovi più aperti ad accogliere, rispettare, dare e ricevere attenzioni. In una parola: a uscire da quei buchi profondi in cui l’asprezza di certe situazioni tende a rinchiuderci. Vale per tutti, per i volontari, i donatori, gli operatori, gli amministratori pubblici, così come per i più poveri che, coinvolti in una relazione, sono più facilmente responsabilizzati. Il povero infatti è sì colui che non ha il pane, ma ancora di più colui che si sente incapace di migliorare la sua condizione. Sono moltissime le testimonianze di persone che in questi anni, ricevendo il pacco di alimenti, si sono accorte di essere oggetto di un bene gratuito e per questo hanno cominciato a riprendere coscienza di sé, della propria esigenza di felicità, della capacità di affrontare con più forza e speranza le difficoltà.
Occorre «guardarli in faccia, guardarli negli occhi, stringere loro la mano, scorgere in essi la carne di Cristo – ha detto papa Francesco all’udienza concessa al Banco – e aiutarli anche a riconquistare la loro dignità e a rimettersi in piedi. […] Possiamo fare qualcosa, di fronte all’emergenza della fame, qualcosa di umile, e che ha anche la forza di un miracolo. Prima di tutto possiamo educarci all’umanità, a riconoscere l’umanità presente in ogni persona, bisognosa di tutto».