L’anno giubilare è ormai alle porte. L’effluvio di parole e di opinioni da cui in queste settimane siamo stati sommersi raccontano di un popolo, anche cristiano, che fa fatica a stare in contatto col proprio dolore, con la propria rabbia e con le proprie paure. Una grande solitudine attraversa l’Occidente e l’uso ossessivo, talvolta violento, dei social media evidenzia che essa affonda le sue radici in un’incapacità — divenuta cronica — a comunicare, a parlarsi, ad accogliere. 

L’altro, nel matrimonio come nelle amicizie, diventa sempre più distante, più estraneo, e non esiste iniziativa o sforzo di volontà che riescano davvero ad avvicinarlo. I dialoghi si svuotano di contenuto, le parole perdono il loro peso e sul palcoscenico della vita va in onda sovente il timore di svanire nel nulla, la pretesa sottile che “tu sia come voglio io”, la smania di affermare sé e la propria idea di mondo e di giustizia. Un’incomunicabilità triste fa da titolo di coda ad un passato che non c’è più, a battaglie che non sono davvero riuscite a sostenerci quando il cielo si è fatto buio, a rapporti che sembravano per la vita, ma che sono stati portati via dalla prima vera tempesta. E d’un tratto ciascuno si volta indietro e vede il nulla alle proprie spalle, un nichilismo tragico che le battute, la musica o lo sballo cercano di coprire e di soffocare, ma che niente sembra essere davvero in grado di far tacere. E tutti gli esperti della vita, anche quelli con le parole giuste e le citazioni azzeccate, appaiono come clown al termine di uno spettacolo: troppo costruiti per essere credibili, troppo truccati per rispondere alla fame di autenticità che abita il nostro cuore. Nessun piccolo potere, nessuna vittoria, nessun cambiamento, basta davvero. La notte schiude lentamente i suoi segreti e le lacrime, quelle lacrime che sempre ci sono e mai non scendono, rivelano un desiderio trattenuto, negato, ridotto. 

La mia generazione, la generazione del Bataclan, di quelli che al Bataclan sono morti e di quelli che lì hanno sparato, da troppo tempo ha smesso di desiderare davvero ed è diventata, ad immagine di chi l’ha preceduta, incapace di volere tutto, incapace di mendicare l’Infinito. 

Per questo solo nella remota ipotesi che questo Infinito scenda dal Cielo e venga a cercarci, solo in quel caso, qualcosa potrebbe realmente muoversi e cambiare. Non c’è altra strada che un Incontro per ridestare tutta l’ampiezza e tutto il grido della vita. L’incontro con uno sguardo così umano da risvegliare in ognuno quella strana nostalgia che ci rende inquieti, che ci rende vivi. È necessario che si riapra una porta perché un’intera generazione torni a vivere. 

Per questo il Papa aprirà la Porta Santa, per questo offrirà alla libertà di tutti un Giubileo: per permettere che sulle nostre ferite si stenda il balsamo della Misericordia e il profumo di un Amore eterno che — da sempre — non fa altro che aspettarci. Perché Lui c’è, è sempre lì. Mentre è il nostro cuore ad essere da un’altra parte. Troppo stanco per tornare a casa, ma — ultimamente — troppo fragile per non implorare alle Stelle il “miracolo di un cambiamento”, la gioia di Qualcuno che, d’improvviso, ricominci ad amarci. 

E’ tutto qui l’Anno Santo di Francesco, nel desiderio di un padre che vuole donare ai propri figli una strada di vita, una strada di resurrezione. E chi è un po’ onesto con se stesso non vede l’ora che questo Giubileo cominci, che quella Porta si apra. Che possa riaccadere il miracolo della Misericordia. Proprio qui, proprio oggi, in questo inizio d’Avvento che promette ancora una volta lo sguardo di Colui che salva tutto, lo sguardo di Colui per il quale ogni uomo — in ogni tempo — attende un Giubileo, attende il Natale.