Sono in visita alla mostra di William Congdon, allestita dalla Fondazione che porta il suo nome a Casa Testori di Novate Milanese. Raccolte in stanze tematiche – i campi, i fiori, la nebbia eccetera – vi si trovano un cinquantina di opere del mio vecchio amico, quelle che amo di più, quelle che son sempre contento di rivedere dal vivo (esperienza che consiglio a tutti, anche perché le riproduzioni, pur ben curate, sono incredibilmente lontane dall’originale), quelle di cui magari ho parlato con lui stesso. Queste opere mi piacciono particolarmente perché l’enorme tensione emotiva che caratterizza la sensibilità e la pittura di Congdon in esse trova una – se così posso esprimermi – drammatica pacificazione. Nel rapporto perfetto tra quelle masse di colore (Mark Rothko sapeva fare altrettanto, ma i suoi colori non avevano la densità di quelli del Bill, perché per quest’ultimo prima di essere colori erano cose: campi, cieli, nebbie eccetera, appunto), nel rapporto fra le masse di colore vibrano contemporaneamente la consapevolezza di un caos sempre incombente, l’attesa di un’armonia oltre le ferite della vita, il miracolo dell’immagine che fissa sulla tavola questo dramma che sempre si ricompone e sempre ricomincia.

Sono, dunque, nella prima sala della mostra, di fronte a un grande campo verde-marrone, percorso da profondi solchi che convergono verso un cielo invernale (il quadro è del mese di febbraio). Improvvisamente – ennesimo regalo di questo lungo e luminosissimo autunno – la sala è inondata di sole; il quadro si accende, la luce entra nella pasta colorata così come penetra, fecondatrice, nelle zolle della terra. Non l’avevo mai visto così quel quadro (e non so se si potrà ripresentare la stessa congiuntura di luce), ed è una scoperta: l’attesa dei campi è stata incontrata, baciata, vivificata, dal calore di una luce imprevista. Con questa sorpresa negli occhi continuo la visita della mostra, però alla fine voglio tornare là. Il sole è passato oltre; peccato, ma il regalo me l’aveva già fatto.

Una decina di giorni dopo. Partecipo alla presentazione – curata dall’editore, Hoepli, e dal Centro Culturale di Milano – del libro di Andrea Pedrinelli La canzone a Milano dalle origini ai nostri giorni. Una bella serata, tanta gente, amici, buona musica, molte informazioni che non conoscevo

Ad un certo punto, ad esempio, Pedrinelli inizia a parlare di un giovane cantante a me sconosciuto e fa sentire la sua canzone forse più famosa. Lui si chiama Alessandro Bono (pseudonimo di Pizzamiglio) e la canzone, intitolata Gesù Cristo, dice tra l’altro: «Perché faccio musica, dimmi cosa altro potrei. Perché fumo troppo, sto bruciando tutti i sogni miei. Gesù Cristo ritorna perché qui abbiam bisogno di te, per favore ritorna hanno sporcato tutto quello che c’è. Passare il tempo qui tra queste facce bianche d’infelicità intorno ad un biliardo verde e depresso come questa città. Gesù Gesù Gesù Cristo ritorna perché qui abbiam bisogno di te, per favore ritorna hanno sporcato tutto quello che c’è». Sorprendente: sembra un’eco dalla primitiva preghiera cristiana, concentrata sull’attesa del ritorno imminente del Messia. Sorprendente, inoltre, perché a pregare così (poi sono andato a cercarlo in rete) è il volto di un ragazzo che introducendo la canzone dice: «In un momento particolare della mia vita mi sono rivolto a una persona particolare»». Alessandro è morto di Aids, non ancora trentenne, nel 1994; ma il regalo di capire meglio cos’è l’attesa, in questo inizio di Avvento, me l’ha fatto anche lui.