La proposta di legge sulle unioni civili trascina tratti tecnici ampiamente discussi. Meno dibattuti ma non meno importanti sono alcuni elementi “che vengono prima”, e che inquadrano il problema, dando un’idea delle basi e della storia su cui sorge. Li sintetizzo con tre termini: sufficienza, autosufficienza e insufficienza.
Il primo tratto è la “sufficienza” con cui la tensione improvvisa che da nemmeno dieci anni percorre l’occidente per mostrare la parità e interscambiabilità di tutti i tipi di convivenza affettiva guarda il resto del mondo; cosa buona se si vuole evitare una discriminazione, ma così pervicace: richieste ai governi, ma anche film, canzoni, testimonial, casi-limite, proprio come si fa con il lancio di un prodotto, cosa che in sé può essere a buon fine, ma sembra tanto studiata a tavolino. Ricorda (e ci spiacerebbe se fosse così) il metodo di vendere creando il bisogno; o ricorda quando nel 2000 tutti gli italiani improvvisamente erano diventati esperti di navigazione a vela (fu un boom!) per le regate di Coppa America di cui non si interessavano prima, e di cui smisero di interessarsi il giorno dopo. E’ il tanto parlare di questi temi una reale presa di coscienza sociale o buona propaganda?
Il secondo tratto è che il giusto parlar di accettare chi è “diverso per genere”, può offuscare il parlare di chi è diverso per sesso. Chi si ricorda più della fiammata di indignazione che portò nel 2011 a manifestare le donne in difesa dell’immagine del corpo femminile in tv? Come se il problema si fosse risolto (ma non si è risolto!) o non fosse diventato più appetibile; ma soprattutto un paradosso: è come se con il parlare dei diritti di chi ama l’omologo a sé, si trascurasse di parlare di chi non è “uguale a sé” sessualmente, l’uomo per la donna e viceversa. E il dilemma delle adozioni da parte di coppie maschili adombra il rischio di rientrare nella logica di autosufficienza maschile (storicamente rappresentato dal mito della nascita di Atena da Zeus).
Ultimo tratto è la “insufficienza” dell’attenzione al sociale in un mondo dove pare che contino solo i diritti individuali: si parla tanto di diritto a come “io” posso avere un figlio (magari da una donna che si presta a generarlo e non riconoscerlo) o come “io” posso sposarmi (e con chi) e poco di come “noi” possiamo migliorare la nostra condizione di classe o “noi” possiamo cambiare l’azienda. Il progressismo di oggi è diverso dal progressismo di ieri in quanto il primo alza la voce per i diritti individuali, il secondo l’alzava per i diritti sociali. Diego Fusaro scrive che nell’attacco verso il modello atavico di famiglia risiede “il pensiero unico capitalistico”; il rammarico di antichi uomini di sinistra per la scomparsa dall’agenda politica dei diritti dei lavoratori e delle donne è sotto gli occhi di tutti.
Purtroppo, questo livello pre-problematico viene tenuto lontano dal dibattito. Chi ne discute, farebbe bene a tenere presente questi tre punti per ricordare il passato e prevedere il futuro.