La cronaca continua a proporci vicende molto dure e difficili da raccontare. Non più di due giorni fa Maurizio Falcioni, che picchiò così violentemente la compagna Chiara Insidioso da mandarla in coma per molti mesi, ha ottenuto uno sconto della pena dalla Corte d’Appello di Roma provocando tutta la rabbia del papà di Chiara, che si prende cura dei numerosi danni ancora visibili sulla figlia tutt’oggi in sedia a rotelle. 

Non più tardi di ieri, invece, Fabio Perrone, ergastolano responsabile di un omicidio avvenuto nel 2014 in provincia di Lecce, ha rubato la pistola ad uno dei due agenti di polizia penitenziaria che lo avevano scortato all’ospedale per un esame sanitario, iniziando a sparare senza riserbo e ferendo tre persone per poi dileguarsi in una fuga degna di un film. 

Davanti a questi fatti la nostra capacità di giudizio si appiattisce sul trend generale, schierandosi su posizioni alimentate ad arte dai media per non permettere alle coscienze dei singoli di andare al di là della reazione emotiva provocata dagli eventi. La domanda da farsi, in frangenti come questi, non è tanto quella su chi ha ragione o chi ha torto, quanto quella sul perché ci troviamo così impreparati davanti alla realtà concreta di tutti i giorni. Siamo infatti molto bravi sui grandi principi e sulle norme morali, ma siamo completamente sprovveduti dinnanzi a nostro figlio, a nostra moglie, al male di chi ci sta vicino, al dolore e all’oscurità che manifestano i nostri amici o gli sconosciuti che salgono agli onori delle cronache. 

Perché tutto questo? Da dove nasce quest’ultima incapacità a guardare da adulti, senza bisogno della badante o del guru, le cose che succedono? La risposta è forse più semplice di quella che pensiamo e risiede nel significato che attribuiamo alla parola “altro”. 

Per noi l’altro, in effetti, è qualcuno che non c’entra con me, è un estraneo, un diverso lontano mille miglia da quello che sono io. In verità le cose non stanno proprio così: in quanto essere umano, uomo come me, l’altro incarna sempre una parte della mia persona, rappresenta un pezzo di me. Chi mi sta vicino, o chi incontro per strada, non è qualcosa di completamente separato da quello che sono io, ma racconta un tratto di quello che c’è dentro la mia storia e che magari — da solo — non sono capace di vedere e di ascoltare. Per questo Dio non ci ha fatti soli: perché potessimo incontrare nell’altro come uno spunto, come una provocazione, a guardare di più noi stessi fino in fondo, fino a dire “Io”. 

Il problema, allora, sta tutto qui: nello sguardo che ciascuno ha su di sé. Quanto più non siamo capaci di guardare noi stessi, e di stare di fronte a tutte le parti che ci costituiscono, tanto più questo ci riesce impossibile di fronte a coloro che quelle parti ce le mostrano in maniera plastica e ineludibile. Si può quindi affermare, senza temere di essere smentiti, che il vero problema della vita è il giudizio che ciascuno ha su di sé. Ma da dove attingiamo questo giudizio? Da dove sorge nella nostra vita? 

Gesù nel Vangelo dice: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”, ossia “sei destinato a guardare e ad amare l’altro nello stesso modo con cui guardi e ami te”. Alla luce di ciò si capisce come è stata necessaria, per la salvezza — per la salute — di ciascuno di noi, l’Incarnazione. Con l’Incarnazione, infatti, il Verbo di Dio non solo ha affermato che tutta l’umanità è connessa — e che quindi in ogni altro c’è qualcosa di me — ma, molto più radicalmente, ha introdotto nella storia l’evidenza che l’Io ha a che fare con il Mistero, che l’ultimo giudizio sull’Io non è l’umano, i fattori che costituiscono l’umano, bensì il Divino, il suo legame con l’Essere. Noi siamo di Dio e Dio, dice san Giovanni, è Amore. Noi apparteniamo all’Amore e l’ultima definizione della nostra vita è “Amore”, “Misericordia”. 

La cosa più grande che può fare un uomo non è dunque quella di portare a compimento un’impresa o di realizzare qualche successo, quanto quella di riconciliarsi con sé, di cominciare davvero ad amare sé e ad amare negli altri quelle parti di sé che essi rappresentano. Il marito darà sempre ultimamente fastidio alla moglie perché ricondurrà continuamente la moglie di fronte ad un pezzetto del proprio Io che proprio non riesce ad amare e che è possibile abbracciare solo dentro un Amore più grande, solo dentro un Mistero. Tornare alle vicende di cronaca di questi giorni con questa coscienza ci mostra che tutti siamo capaci di fare del male a chi ci sta vicino, che tutti siamo capaci di ribellarci all’oggettività della nostra condizione e che questa nostra infermità va curata, va sanata, va accolta. 

Altrimenti rimane solo rabbia e delusione, pretesa e durezza di cuore. Convinti di aver biasimato e condannato indignati il male che ci sta attorno, ma incapaci di riconoscere che — così facendo — abbiamo condannato e biasimato prima di tutto noi stessi. 

Cristo non è venuto a condannare il mondo, ma a salvarlo, ossia ad assumerlo, a riportarlo nell’abbraccio del divino. E dopo duemila anni, è questo il punto, tutto questo ci appare ancora troppo assurdo per essere vero. Possiamo accettare che l’uomo si dia da fare per diventare Dio, ma non possiamo accettare che Dio si sia mosso per abbracciare l’uomo. E finché ciascuno non accetta, con la libertà che il Cielo gli ha donato, di partecipare a questo abbraccio, tutto resterà solo tifo, tutto resterà solo rivendicazione. Moralmente ineccepibile, ma umanamente triste.