Lo scampato pericolo di una vittoria del Front National in Francia pone il problema della crescita di una formazione di destra rapidamente archiviata come semplice reazione dinanzi alla crisi economica ed agli esiti immigratori della globalizzazione. In pratica questo partito si configura come uno dei tanti movimenti di opposizione alla realtà in favore di un ritorno ad un passato riscoperto come gradevole ed accettabile. Una tale analisi sommaria del Front National, pur legittimando l’unione provvidenziale tra i due partiti di centro-destra e di centro-sinistra contro la deriva anti-europeista ed il richiamo nazionalista che questi indiscutibilmente rappresenta, lascia tuttavia profondamente insoddisfatti. Dinanzi alla necessità di spiegare un’ascesa di quella che, fino a qualche decennio fa, era una formazione marginale poco più che folclorica, il far ricorso alla casistica delle semplici reazioni emotive non appare sufficiente né credibile.
Né la crisi economica degli anni ottanta, né le ondate immigratorie successive a questo periodo sono infatti riuscite a sdoganare dalla marginalità politica una formazione rinchiusa dietro la semplice rivendicazione nazionalista. Ancora nella Francia dei primi anni ottanta, il gruppo di Jean-Marie Le Pen non aveva che un peso risibile rispetto al prestigio delle coalizioni di centro destra e soprattutto rispetto ad un Parti Socialiste saldamente insediato non solo all’Eliseo e a Palazzo Matignon ma anche e soprattutto nell’universo culturale, editoriale ed accademico. Dinanzi a queste potenti formazioni politiche il Front National restava una formazione non solo esterna al mondo del centro-destra, ma soprattutto ne costituiva una variante estrema e, proprio per questo, marginale.
Spiegare l’ascesa di una tale formazione richiede allora analisi meno liquidatorie di quelle che ne fanno una semplice reazione alla globalizzazione ed all’Europa. La sua attuale ascesa — e la conseguente coalizione forzata tra le altre due formazioni principali, pena la loro prevedibile sconfitta — richiede la messa in gioco di ulteriori fattori.
In realtà dietro la marcia continua e fino ad oggi inarrestabile di questo partito gioca in primo luogo la politica culturale esercitata dall’attuale leadership socialista, una politica della quale il fallimento del modello di inserimento della popolazione immigrata ne rivela i limiti profondi. Sotto quest’aspetto sia le tragedie del 7 e del 9 gennaio di quest’anno (assalto alla redazione del settimanale Charlie Hebdo e al supermercato ebraico di Porte de Vincennes) sia quella più recente e tragica del 13 novembre hanno manifestato i limiti profondi dell’intero progetto multiculturalista varato in Francia negli ultimi vent’anni.
Nulla potrà riavvolgere il filo della tragedia del 13 novembre e cambiarne gli esiti. La comparsa di foreign fighters, di militanti islamici cresciuti nelle periferie dell’occidente, capaci di uccidere degli innocenti e di farsi uccidere per il fantasma delirante di un islam dove l’assassinio è considerato il salvacondotto per la gloria, pone seri problemi sull’intero percorso di integrazione. Ma soprattutto il manifestarsi, intorno a loro, di un universo di silenzi, di connivenze e di coperture rivela l’impossibilità profonda di integrare schegge di cultura cresciute e maturate nella convinzione di essere in credito verso l’Occidente, di avere torti da soddisfare anziché saperi da conoscere e verità da apprendere.
Se ogni guerra ha sempre contato le vittime innocenti ed ha visto i suoi morti inutili, adesso la situazione è diversa e più insidiosa. Non ci sono Stati ma gruppi di potere allo sbando, che raccolgono e drenano le assenze e le incapacità del mondo. Non ci sono religioni ma sette di dimissionari da ogni ragione possibile. Non ci sono governi, ma cecità amministrative che continuano a non credere che le periferie siano diventate il problema principale, in quanto è proprio da questi quartieri, dai vari Saint-Denis, Aubervilliers e Molenbeek che si metastatizzano le cellule dell’odio, dell’orrore e quindi dell’insicurezza.
La ragione di una tale difficoltà risiede nell’assenza oramai comprovata di un progetto di città e dalla crescente indifferenza verso il terreno comune di un bene condiviso. Da tempo l’intero mainstream della cultura dominante si gloria di cimentarsi in tutt’altra direzione: quella dei diritti individuali. Alla polis ha fatto seguito l’individuo, perfettamente difeso nelle sue libertà di scegliere e di ricomporre la realtà, trincerato dietro la reversibilità di ogni decisione come di ogni legame. Da tempo termini come “valori”, “appartenenze”, “progetto” sembrano costituire più il nocciolo di comunità di ogni genere che il tessuto politico della “città”. Nell’ora dei diritti individuali non ci sono che conquiste personali e autonomie individuali mentre manca il terreno condiviso di un progetto comune. Dopo essersi sbarazzata del passato e dinanzi all’indeterminatezza del futuro, la modernità contemporanea si attesta sul presente del qui ed ora, cementando i diritti del singolo anziché quelli della società e del progetto di città che dovrebbe costituirla.
Sembra svanire l’esigenza di un mondo da conoscere, così come diviene completamente aleatorio l’obiettivo di una natura umana da coltivare. Ma non si dialoga quando non si ha niente da dire, né alcunché da presentare. Ed è in un tale vuoto culturale che le parole perdono il loro senso e quest’ultimo può essere costantemente riscritto. È il sonno dei principi culturali e dei progetti politici ad alimentare, come in un film già visto, i mostri del kalashnikov e degli omicidi in diretta streaming. È in un progetto politico da ricostruire e di una “promessa di città” da riedificare risiede lo spazio di una ritrovata e sempre più urgente riflessione politica.