«Non si lasci consolare dall’ingiustizia del nostro tempo. La sua ingiustizia morale non La rende giusto, la sua disumanità non basta a far sì che chi non è d’accordo, sia già, per ciò stesso, un uomo».
Chi scrive così, in una lettera del 9 luglio 1952, è Boris Pasternak, l’autore del Dottor Živago, premio Nobel per la letteratura nel 1958, che da anni non poteva più pubblicare praticamente nulla e che dopo il premio sarebbe stato oggetto di una nuova violentissima campagna persecutoria; la persona a cui si rivolge è Varlam Šalamov, futuro autore dei Racconti della Kolyma, una delle opere più alte di tutta la letteratura del XX secolo, che stava finendo di scontare poco meno di vent’anni di lager.
C’è da farsi venire le vertigini. In nome di che cosa un uomo con un destino come quello di Pasternak può osare scrivere a un suo confratello, con un destino anche peggiore del suo, che l’ingiustizia che ha dovuto subire non lo mette di per ciò stesso dalla parte della ragione? E in nome di che cosa Šalamov può rispondergli definendo questa lettera «meravigliosa» e piena di «delicatezza»? Non ne avevano già abbastanza per lamentarsi, per sentirsi offesi e, se non proprio per odiare il nemico, almeno per sentirsi nel giusto?
E invece no; nessuna persecuzione li autorizzava a sentirsi a posto.
Fuori di ogni poesia, ma con una forza di verità che forse solo la poesia (con la santità) ci può far comprendere, la provocazione di questo brano interessa direttamente l’esperienza che stiamo vivendo in questi mesi, colpisce un mondo che si sente attaccato e assediato da un terrorismo disumano ed è tentato di sentirsi autorizzato a tutto per difendersi. Qualsiasi alleanza, qualsiasi compromesso, qualsiasi arma (persino quelle nucleari): tutto sembra giustificato.
E invece no; dall’inferno nel quale vivevano i due grandi poeti ci dicono che non basta opporsi al male per essere nel bene.
Cosa ci resta allora? L’altra grande tentazione dell’Occidente è quella di ritrarsi, di ripiegarsi in una sorta di suicidio che rinuncia a riconoscere un qualsiasi valore alla propria tradizione, che non desidera più di preservarla per poterne fare oggetto, se non altro, di un incontro reale con le altre tradizioni.
E invece no; anche questa prospettiva ci è vietata. Né Pasternak né Šalamov avevano dubbi sul valore dell’opera poetica che il regime perseguitava: il primo stava per finire la sua opera maggiore e il secondo stava per iniziare a scrivere la sua.
In nome di che cosa dunque uscivano da quel circolo vizioso di autogiustificazione e autofustigazione che invece rende noi impotenti, pieni d’astio e di odio da una parte, mesti e piagnucolosi, dall’altra?
Qualche riga dopo il brano che abbiamo letto, Pasternak dava un consiglio a Šalamov. Ma cosa gli consigliava? Di scrivere ancora meglio? Di scrivere in modo di sfuggire alla censura? Neanche per idea, «i versi — gli diceva — anche scritti assai meglio, non sono mai fini a se stessi, e di per se stessi non valgono un fico secco». «I versi non valgono un fico secco»: e a scrivere questo era uno dei poeti più grandi del XX secolo! Il consiglio che dava all’altro poeta era completamente diverso: lo invitava sì al perfezionamento, ma subito precisava che si trattava del «perfezionamento interiore».
E dove ci porta oggi questa provocazione? All’impegno di cercare compromessi meno umilianti, misure più efficaci, alleanze migliori? Tutte possibilità da verificare, come del resto fecero i due poeti che, pur sapendo che non valevano «un fico secco», cercarono sempre di scrivere versi migliori, opere migliori. Ma al di là di tutto questo, prima di tutto questo, ciò che li ha resi grandi è stato quello scommettere su un «perfezionamento interiore» che per noi oggi, al di là di imposizioni violente o imbelli rinunce, significa il rischio di verificare il valore della nostra tradizione (come dei loro versi): il rischio di metterla alla prova, perché essa vale non di per sé o perché le altre sono cattive, ma nella misura in cui è capace di aprirci a un ininterrotto perfezionamento; vale, in altri termini, non nella misura in cui è capace di difendere i nostri beni o sa convincerci nichilisticamente che non esiste alcun bene, ma nella misura in cui è capace di incrementare il bene, per rendere possibile la vita, per noi e per tutti.