Cosa sta succedendo e, soprattutto, cosa succederà dopo le recenti vicende relative ai dissesti bancari? C’è ancora molto da vedere e capire. Siamo in un momento in cui la fiducia reciproca fra le persone, le imprese e le autorità di vigilanza nel sistema finanziario è zero o quasi, esattamente come i tassi d’interesse Usa fino all’altro giorno, come l’inflazione in Europa, o come il Pil italiano (e non solo).



A sette anni dal crack Lehman Brothers, l’economia fatica a risollevarsi   mentre anche i banchieri sono stanchi e incerti attorno all’efficacia puramente tecnica delle iniezioni di denaro. L’Italia, purtroppo, è un caso emblematico: le banche continuano a non prestare, nonostante la liquidità abbondante. La stessa Bce – con l’altro braccio – è poi molto severa sui requisiti patrimoniali delle banche. Le imprese non investono: comprano pochi macchinari e assumono meno di quanto sarebbe utile. I consumatori consumano poco, meno di quanto forse potrebbero e di quanto hanno fatto in passato. Non da ultimo i risparmiatori risparmiano ancora, ma sempre meno (anche se l’ultima rilevazione del Censis di pochi giorni fa dice che si sta ritornando a risparmiare), ma sono sempre più restii ad affidare il loro risparmio a chicchessia: a una banca tradizionale oppure ai gestori di mercato, i cui strumenti d’investimento sono comunque promossi e venduti dagli sportelli bancari, fisici o web.



La nuova regolamentazione europea sui salvataggi bancari – il “bail in” – tranquillizza i mercati e le agenzie di rating: vieta agli Stati europei di salvare le banche con fondi dei contribuenti o con nuovi debiti, ma  questo fa sì che le banche cerchino di rivalersi trasferendo i rischi su azionisti, obbligazionisti e – in casi estremi – perfino su depositanti e correntisti. Non è esattamente quanto può riaccendere una pure tenue fiducia dei risparmiatori nel sistema finanziario.

Alla fine quel che avviene è che le banche non fanno più ciò che hanno sempre fatto: raccogliere il risparmio delle famiglie per far credito alle imprese sulla base di una fiducia reciproca che spesso si è accumulata e tramandata fra generazioni. Un ruolo decisivo in questo l’ha avuto il disastroso superamento della divisione tra banche commerciali e banche d’investimento introdotto da Bill Clinton.



Ma niente è figlio del caso. Quanto accade ha un mandante: il neoliberismo mondiale, l’idea di un sistema economico costruito per far massimizzare i guadagni ai fondi d’investimento, propugnato a piene mani anche da economisti e opinionisti nostrani à la page, e tradotta  in atto concreto da molti direttori di banca.
Il consenso a questo integralismo finanziario ha avuto esiti concreti disastrosi. Immensi giacimenti di risparmio sono stati dirottati verso “fabbriche di finanza” internazionali che da lontano re-inviano “prodotti di risparmio” in scatola chiusa (e spesso vuota) alle banche divenute supermercati di vendita.  

Nessuno si occupa più delle imprese che  chiedono un affidamento per la gestione o un finanziamento a lungo termine per l’investimento e lo sviluppo. L’azzardo morale e l’inseguimento di un profitto a breve termine, cose che non appartenevano alla tradizione bancaria dell’Europa continentale, sono divenuti la regola. Ciò vale in particolare per il sistema bancario italiano, costretto a “chiudere” quattro sue istituzioni, massimizzando i costi per i risparmiatori e tagliando le gambe al ritorno della fiducia.

Strumentalmente si continua ad affermare che la ragione dello sfascio è   il tradizionale legame delle banche italiane con il territorio quando è vero esattamente il contrario: il problema è nell’aver adottato il modello calvinista in economia. Quanto si è snobbato il vecchio direttore di banca che come un medico che non si fida solo degli esami, ma vuole visitare il paziente, amministrava con prudenza e fiducia, permettendo buoni utili, magari non stratosferici, alla banca, oltre che sviluppo dell’economia. I giovani rampanti, figli delle società di consulenza e dei fondi di investimento internazionali, hanno introdotto nuove teorie di massimizzazione del profitto ad ogni costo supportati da cosiddetti esperti che hanno spopolato su talk show e giornali. Così, senza un piano sull’intero sistema, su ispirazione degli stessi fan della finanza globale, in una notte, con un decreto, lo scorso gennaio, si è deciso di trasformare le Popolari in Spa: valeva la pena farlo senza un’adeguata riflessione che ponderasse tutti i fattori di tale trasformazione? Di chi diventeranno queste banche? Perché non ci si è curati del fatto che poche ore prima di quel decreto – sulle voci che la politica lasciava correre in Borsa – una Popolare come quella dell’Etruria e molti altri facessero guadagni speculativi? C’è da stupirsi se la fiducia e il credito (cioè la responsabilità reciproca fra attori di una stessa società economica) sono scesi a zero lungo tutti i rami, dai consigli d’amministrazione alle filiali bancarie, da una sede di authority all’altra con il risparmiatore ridotto a puro ingranaggio del meccanismo?

“Il salvataggio ad ogni costo delle banche – ha detto papa Francesco -, facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere e riformare l`intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura”.

Allora di fronte agli scandali di oggi il vero problema è fare una severa autocritica, quella che non c’è stata dopo la crisi finanziaria e che continua a non esserci: c’è ancora chi vuole un capitalismo come regime di rapina fuori da ogni regola.