Viviamo in un perenne stato di guerra, non solo per le guerre reali ma anche per il continuo susseguirsi di attentati terroristici, di violenze che colpiscono per lo più a caso, alimentando un sentimento di insicurezza diffuso, che si accompagna spesso con un astio rabbioso e con tutto quello che l’astio porta con sé: occhi che non vedono, cuori che non sentono. Tutti o quasi ne siamo vittime, anche chi ha ragione se ne lascia trascinare.
I tatari della Crimea, che nel 2014, dopo le infinite persecuzioni subite in epoca sovietica, si erano fermamente ma civilmente opposti all’annessione russa e che poi, prigionieri in casa propria, avevano deciso in molti di lasciare tutto e trasferirsi in territorio ucraino, ora cercano di vendicarsi dei russi. Così l’imprenditore tataro Lenur Islamov ha lasciato Mosca dove aveva fatto fortuna, e da Kiev ha organizzato l’embargo alimentare contro la Crimea: nessun prodotto ucraino (soprattutto latticini) giunge più da mesi nella penisola occupata, e se pensiamo che ora Putin da parte sua ha indetto l’embargo dei prodotti turchi che compensavano le perdite ucraine, possiamo immaginare la situazione della gente. Ma il 23 novembre all’embargo alimentare si è aggiunto anche il blocco dell’energia elettrica, dopo che un gruppo di attivisti tatari ha fatto saltare tre tralicci dell’alta tensione che dal territorio ucraino convogliano l’elettricità in territorio occupato. Sicuramente ne ha sofferto più la popolazione civile che l’amministrazione pubblica; sono rimasti fermi gli ospedali, le scuole, i ricoveri, le piccole attività private.
La logica dei tatari è molto elementare: “ben gli sta a quelli che hanno votato per l’annessione”, una sorta di occhio per occhio che sembra legittimo e forse è comprensibile, ma che non si capisce come possa portare a una soluzione reale del conflitto; nessuno può infatti pensare che a causa del blackout i russi lasceranno la Crimea. Eppure è questa la mentalità: ad ogni sopruso e violenza ci si sente in diritto di reagire con gli stessi mezzi o, comunque, dando via libera a sentimenti reattivi che spaziano dall’indignazione all’odio. L’esempio ucraino è solo uno dei tanti: tutte le guerre vicine o lontane hanno l’effetto di caricarci di “giusta indignazione” (che tranquillizza la nostra coscienza), ma al tempo stesso alzano la soglia dell’abitudine alla sofferenza reale del prossimo.
Non è un caso che persino la “campagna progresso” di Unicef Italia per i bambini migranti quest’anno sia tutta giocata sul sentimento dell’offesa, su un pathos negativo: “Indigniamoci! Ogni giorno è un buon giorno per indignarsi”. Perché, dice la logica corrente, è insensato non reagire ai violenti. Tutto molto logico. Ma siamo davvero sicuri che il pathos negativo possa suggerire soluzioni reali?
E allora viene da chiedersi da dove, 50 anni fa, all’inizio del dissenso, dei giovani sovietici atei, figli di sovietici atei, avessero mutuato una logica opposta, totalmente cristiana che suggeriva loro di non combattere il regime totalitario con i suoi stessi mezzi per non essere uguali a lui, e di sacrificare piuttosto la propria vita. Questa logica cristiana, fatta propria magari inconsapevolmente dai dissidenti laici, era, in fondo, anche la logica più compiutamente umana, che ancora oggi mostra tutta la sua pertinenza e potenzialità. È l’umanesimo cristiano riscoperto dai filosofi russi del primo ‘900, quando Berdjaev scriveva: “È impossibile costruire la vita su un sentimento negativo, su un sentimento di odio, di rabbia e di vendetta… Nessuna strada può essere aperta da elementi negativi, la vita esige al suo principio elementi positivi”.
Questa voce non è andata totalmente persa, e così, mentre oggi persino la Chiesa ortodossa russa si lascia contagiare dal pathos dell’indignazione e dell’odio, e parla apertamente di “guerra santa”, esaltando Stalin, la Russia ci offre anche esempi diversi, di una logica controcorrente: Sergej Chapnin, credente, giornalista, padre di due bambini, direttore responsabile della “Rivista del Patriarcato di Mosca”, l’organo centrale della Chiesa, si è giocato il posto per aver voluto dire la verità sui gravi problemi della sua Chiesa, e il 16 dicembre, con una lettera, il Patriarca lo ha licenziato. Chapnin, intervistato, ha così commentato il licenziamento: “Io lo dicevo sempre: non fate di me un burocrate ecclesiastico; come cristiano non concepisco la mia vita senza la libertà che ci ha donato Cristo”. E poi, senza accuse e recriminazioni, ha concluso: “Cerco di vedere in quello che succede la divina Provvidenza … Insomma, non mi dispiaccio. Sono felice perché ora si aprono nuove prospettive”.