Nei giorni di Natale, mai come quest’anno ho ricevuto auguri da moltissimi amici ortodossi, che lo celebreranno solo il 7 gennaio, quasi volessero riaffermare un’unità che trova la sua radice proprio qui, nell’adorazione del «Dio-con-noi», l’Emmanuele.
«Cari amici, in questa sera di vigilia del grande giorno del Natale del nostro Salvatore voglio dirvi il mio affetto. In questi anni di amicizia avete avuto più volte modo di provarmi l’affetto che nutrite per me, i miei amici e la mia famiglia. Grazie a tutti voi di questo! Perdonatemi, se ogni tanto per qualche motivo vi deludo. Io spero che anche in futuro continueremo a camminare insieme sulla stessa strada, la strada dall’amore cristiano, quali che siano le difficoltà che ci attendono in questi anni inquieti…».
«Salve, cara Giovanna e collaboratori tutti di “Russia Cristiana” tanto cari al mio cuore, Buon Natale! Questa grande festa suscita in noi un sentimento misto, di tenerezza per il Signore che ha voluto venire al mondo nei sembianti di un bambinello, e di responsabilità per la sconfinata fiducia che il Signore nutre per noi. Mi sembra che il vostro atteggiamento nei nostri confronti, cristiani della Russia che a volte sbagliamo clamorosamente, ma che tuttavia non abbiamo dimenticato il Signore, esprima fondamentalmente proprio questi due sentimenti. Per questo, tutti noi che in qualche modo siamo venuti a contatto con voi vi siamo profondamente riconoscenti».
L’umiltà e la gratitudine che traspaiono in queste parole, scritte da due rispettabili sacerdoti della Chiesa ortodossa russa, da Mosca e da San Pietroburgo, hanno il peso, lo spessore di un fatto accaduto e ormai incancellabile, segnano un cammino compiuto e un’unità – un’amicizia in Cristo – da cui non si torna indietro. Dalla Bielorussia mi raggiunge un messaggio: «In questa notte, per favore, preghi anche per questo suo fratello, il sacerdote ortodosso Sergij»; e un amico ortodosso ucraino: «La tua testimonianza per me è stata come l’inizio del Natale, grazie infinite per i doni della tua amicizia. Buon Natale, nella gioia dell’Inizio!».
In questi stessi giorni sui media russi e occidentali si è fatto un gran parlare di quello che è stato definito un «terremoto» nel patriarcato di Mosca, il licenziamento di Sergej Chapnin, da molti anni direttore della Rivista del patriarcato di Mosca, e del «siluramento» di padre Vsevolod Chaplin, improvvisamente estromesso dal ruolo di presidente del Dipartimento sinodale per i rapporti fra Chiesa e società. Dell’evento sono state date diverse letture, al patriarca Kirill sono state attribuiti diversi intenti, ad esempio quello di liberarsi di opposti estremismi (Chapnin sarebbe troppo «liberal» e schietto nel denunciare i mali interni alla Chiesa, Chaplin al contrario da tempo si segnalava per esternazioni eccessive e talvolta addirittura imbarazzanti sulla necessità di una «guerra santa» in nome dei valori tradizionali e contro i nemici della patria); ma forse in tutta questa enfasi di comprensione di ciò che sta accadendo – non senza ricadute di piccole «meschinità» italiane – si è dimenticato un fattore essenziale, che mi sono sentita richiamare anni fa, in uno dei corridoi del patriarcato di Mosca, proprio da un autorevole prelato ortodosso con cui siamo amici dagli anni di gioventù: «Vedi, a volte non so se quello che sto facendo ora contribuisce ad avvicinare il Regno di Dio, o non piuttosto ad allontanarlo». Questa ammissione mi ha tanto impressionato che da allora, confesso, non passa giorno senza che lo ricordi a Dio.
È di questo dramma umano, o meglio di questo dramma dell’uomo davanti a Dio che parliamo, parlando della Chiesa e delle sue peripezie sulla faccia della terra: ogni riduzione in termini sociologici o addirittura politici è gravemente fuorviante. In fondo, è come se, a conti fatti, non credessimo affatto che la logica della grotta di Betlemme sia in grado di giudicare il nostro oggi. Duemila anni fa, mentre «Ottaviano e Antonio si disputavano l’impero del mondo, Simeone e Anna aspettavano. Chi tra essi agiva di più?» (E. Hello, Fisionomie di santi).
Abbiamo il coraggio di credere che la «profonda solennità del desiderio di coloro che aspettavano» valga anche per noi oggi? Che la novità destinata a scuotere la storia non sia rappresentata da Putin e Obama che «si disputano l’impero del mondo», ma dal segno profetico di questa ortodossia sommersa, che non sale alla ribalta delle cronache e forse nemmeno all’orecchio del patriarca, dalla fede di testimoni e confessori che ogni giorno danno la vita nel silenzio e nel desiderio?