Oggi persino a Kiev questa guerra all’Est, così non voluta e incomprensibile, d’un tratto è diventata più reale, vicina, spaventosa. L’escalation militare delle ultime settimane ha finito per rompere le ultime difese psicologiche. Nella capitale ormai si teme la guerra piena, totale. Il presidente Porošenko ha dichiarato che se non si verrà a un accordo sicuro il governo dichiarerà lo stato di guerra e questo avrà molte conseguenze negative: la prima è che diventerà impossibile all’Ucraina (per chissà quanto tempo) entrare a far parte dell’Unione Europea, poiché nessuno Stato con conflitti in atto può entrarvi.
E ancora, che ci sarà la chiamata generale alle armi, e anche questo è un passo cui nessuno è pronto: non i ragazzi, né le famiglie. Finora hanno combattuto soprattutto i volontari. Il Majdan con tutti i suoi rischi è stato come un gesto naturale, considerato accettabile e necessario, ma questa guerra sporca, “ibrida”, “fratricida” come la chiamano, da combattere contro professionisti, no.
Questo è l’orizzonte oscuro che si apre davanti a un paese in crisi economica, in preda all’inflazione, che fatica e si sforza di ripartire su un piede nuovo ma è ancora assediato dall’inerzia della vecchia corruzione.
Guardando a ritroso si riconosce chiaramente la strategia usata per seminare lo scontro civile in tutto l’Est ucraino; ovunque ci fossero gruppi di potere legati a Janukovic e i loro clienti si è cercato di costruire “l’antimajdan”, gruppi di provocatori diretti da emissari russi, che dovevano creare l’impressione di una protesta popolare filorussa. In alcuni luoghi la cosa è riuscita, come nel Donbass, in altri no, come a Charkov, Odessa, Marjupol. Nel Donbass è scoppiato l’incendio, che la popolazione in parte ha sostenuto, vuoi per sfiducia verso il governo di Kiev, vuoi per la propaganda martellante della tivù russa sui “fascisti ucraini”, e si è trovata così in mezzo a uno scontro di enorme portata. Ma se non fosse stato per l’intervento militare di Mosca, i partigiani filorussi locali sarebbero già stati sconfitti da tempo. L’intervento russo è iniziato già a luglio, con i razzi sparati da oltre confine, poi, dalla fine di agosto, sono entrate le truppe e i mezzi corazzati. Qualche analista arriva a calcolare in 12mila uomini le forze russe in loco, con 235 carri armati, 720 blindati, 263 sistemi d’arma, e il flusso continua attraverso una frontiera che ormai nessuno più controlla. Ma nonostante l’evidente disparità delle forze, gli scontri sono stati accaniti e con alterne vicende: Slavjansk e Kramatorsk, ad esempio, sono state per tre mesi in mano ai separatisti per poi passare in mano ucraina; così è stato con l’aeroporto di Doneck, ora in mano filorussa. Il territorio orientale risulta oggi a macchia di leopardo, non nettamente diviso tra i due fronti ma frastagliato e conteso metro per metro, paese per paese.
In questi giorni, mentre a Minsk si tenta un nuovo accordo (l’ultimo, secondo Hollande), assistiamo a una nuova escalation con il bombardamento di Kramatorsk, il rinnovato assalto di Marjupol, il 3 febbraio, e l’assedio di Debalcevo, più a nord, ormai chiusa in una sacca. E dall’altra parte si risponde colpo su colpo, in una guerra che non ha più limiti e fronti, tanto più reale quanto più è offuscata dalla propaganda.
Mentre le fonti ufficiali russe continuano imperterrite a negare, la presenza delle forze armate russe in territorio ucraino è ormai testimoniata da una valanga di prove incontrovertibili, e gli stessi combattenti russi, nei colloqui coi giornalisti, non fanno mistero della propria identità. Ma oltre ai filmati e alle interviste c’è un’altra prova, terribile, della presenza russa, quella delle bare di zinco trasportate indietro verso la Russia sui camion bianchi con la scritta “Aiuti umanitari”, che tutti sospettano portino invece le armi in Ucraina. Riguardo ai soldati russi caduti sono già venute alla luce molte testimonianze spietate: mogli e madri raccontano di giovani di leva, o padri di famiglia che telefonano a casa avvertendo che tra poco li svestiranno della divisa, gli toglieranno i cellulari e la piastrina di riconoscimento, gli faranno firmare un contratto ed entreranno in territorio ucraino come “volontari”. L'”Associazione della madri dei soldati russi” che tanto aveva fatto per tutelare i soldati in Cecenia, oggi combatte, denuncia, ma la stanno strangolando ed è sull’orlo della chiusura. Eppure è riuscita a mettere in circolazione foto agghiaccianti di campi pieni di tombe senza nome: mandati in incognito, i soldati russi muoiono in incognito, e non c’è nessuno che ne difenda l’onore e ne preservi la memoria.
E ogni violenza sembra giustificata. Questa è una guerra fratricida, dove ortodossi appartenenti allo stesso Patriarcato si sparano addosso; è una guerra senza regole, dove il comportamento sul campo, compreso l’uso della tortura, è dettato dai militari di professione, veterani delle guerre cecene, o da elementi di bande criminali, o da delinquenti liberati per amnistia, che hanno fatto della violenza un modo d’essere. È una guerra senza onore, dove i civili servono come scudi umani, e dove si ricorre alla frode e ai rapimenti: due giorni fa un tribunale di Mosca si è pronunciato sul caso della pilota ucraina Nadja Savcenko, prelevata con la forza a Lugansk e portata in territorio russo. Accusata di aver fatto sparare su un gruppo di giornalisti russi si trova dal luglio scorso in prigione, ma né il suo sciopero della fame di 60 giorni, né l’appello congiunto di molti intellettuali russi, hanno ammorbidito la corte.
E intanto il governo ucraino, da parte sua, tratta i profughi dall’Est come traditori ed estranei. Come ha detto la giornalista russa Viktorija Ivleva: “La Russia spinge l’Ucraina verso la crudeltà, cerca di fare dell’Ucraina ciò che è diventata essa stessa”. La gente ha imparato a uccidere, si è abituata a uccidere, ci vorrà molto tempo perché questa guerra finisca. Davvero ogni passo verso la pace è ormai l’unica soluzione possibile.