I recenti avvenimenti militari che stanno scuotendo la Libia pongono con urgenza il problema di un eventuale coinvolgimento dell’Italia, coinvolgimento riguardo al quale mancano ancora notizie concrete sia per comprenderne i termini sul piano politico, sia per conoscerne le strategie conseguenti su quello operativo. L’Isis, nel frattempo, moltiplica le provocazioni ricorrendo alla oramai nota macelleria dell’orrore, mentre in mare gli scafisti, armi alla mano, pretendono e ottengono di farsi restituire da una motovedetta della guardia costiera quella stessa imbarcazione dalla quale era appena stato fatto sbarcare l’ennesimo triste carico di clandestini.

Nell’epoca dei media e dei social network siamo dinanzi ad una realtà che mai prima d’ora era stata così ostentata: urla e coltelli, uccisioni accuratamente riprese e fatte circolare; un mondo delirante che cerca di abbaiare e mordere al tempo stesso. Per i tagliagole dell’Isis questo conflitto vuole essere in primo luogo una continua riproposizione di immagini nelle quali si autorappresenta. In una continua e delirante spettacolarizzazione dei gesti e delle posture.

Eppure, al di là di tutto ciò che viene presentato, al di là delle interpretazioni che i terroristi autori del messaggio mediatico continuano a proporre, alcune certezze appaiono indiscutibili.

La prima, quella che oramai appare evidente a tutti, è certamente quella dell’aggressività operativa del ricco califfato all’attacco, quindi l’impossibilità tecnica di ricondurre i filmati dell’orrore ad una qualsiasi messinscena, simile in tutto alle più banali e trite finzioni cinematografiche. In pratica lo scenario criminale allestito dai nostri nemici incappucciati è in realtà una tragedia drammaticamente reale.

La seconda certezza è la capacità dell’Isis di pescare nel degrado delle nostre periferie, tra le vite perse dei figli degli immigrati, segnalando così il pieno fallimento di qualsiasi percorso umano di crescita e di sviluppo. Ma questa capacità è anche quella di attrarre una gioventù priva di legami significativi, per la quale il mondo circostante le resta inaccettabile e sottilmente odioso.

La terza certezza, ancora più sconcertante, che quindi sta emergendo in modo sempre più netto è costituita proprio dalla manifesta inconsistenza di quello che dovrebbe essere il referente reale di qualsiasi processo di integrazione: una realtà sociale e culturale dotata di visibilità e fisionomia proprie. Se da decenni le periferie (quelle romane come quelle parigine) non integrano più a nulla, non c’è forse da chiedersi se esista ancora, realmente, un centro? Un centro che sia in grado di presentare, in qualunque modo ma soprattutto attraverso la scuola, una cultura da conoscere, una bellezza da ammirare, un’identità da acquisire? 

Paradossalmente ed al di là di qualsiasi apparenza non sono affatto le religioni ad essere in ballo. O almeno non lo sono affatto per quanto concerne i terroristi che partono dalle periferie di un Occidente che da lungo tempo non presenta più nessun’identità religiosa e tanto meno cristiana. Parlare di scontro tra civiltà, quando questa si declina tra i giovani delle periferie metropolitane, porta a mascherare una realtà ben più tragica: non c’è scontro tra civiltà in quanto gli attori che dovrebbero esprimerle ed interpretarle risultano in quei luoghi semplicemente assenti o poco credibili. Ci sono invece le frustrazioni per un’identità mancata, per un’appartenenza debole, unite ad una volontà di rifiutare tutti i possibili percorsi di integrazione in quanto ritenuti viziati nelle mete proposte. Da qui una volontà di rifiuto che, opportunamente indottrinata, si trasforma rapidamente in decisione di aggressione.

È su questa debolezza congenita dell’Occidente, su questa consistente afasia culturale che non conosce più le proprie ragioni, che il delirio terrorista attira i propri disperati. Colpisce allora come, paradossalmente, la testimonianza più potente venga dai ventuno operai egiziani di religione cristiano-copta, trucidati e uccisi dall’esercito del califfato, con il presidente egiziano musulmano, il generale Al-Sisi che dopo aver bombardato le postazioni dell’Isis decide di far costruire in loro nome una chiesa a Minya, dalla cui regione provenivano questi nostri martiri del terzo millennio.