Qualunque giudizio ci sentiamo di dare sulle attuali vicende che accadono nel mondo, qualunque angoscia ci prenda sul futuro dell’umanità, qualunque prova colpisca paesi e interi popoli l’uomo grida il bisogno di una risposta che rinfranchi i cuori e la risposta non sono mai parole, ma una presenza. Il Papa all’inizio della Quaresima ci ha chiesto di non cedere alla globalizzazione dell’indifferenza. Le circostanze storiche che viviamo come ci sfidano a vivere la fede? Pensiamo alla storia di Abramo, l’amico di Dio. A Dio che lo chiama, che gli chiede di lasciare la sua terra e di fidarsi di una grande promessa: tu e Sara vecchi avrete un figlio, Abramo risponde con un semplice: “Eccomi”. Quando la promessa si avvera nella vita di Abramo chiamato ad essere padre di una moltitudine di popoli, Dio gli chiede l’estremo sacrificio: sacrificami in dono tuo figlio Isacco, offrimi la tua speranza.
E’ una storia da brivido. Immaginiamo quella faticosa salita sul monte Moria, il cuore spezzato dal dolore, quel figlio che gli chiede: papà c’è la legna da bruciare, ma dov’è l’agnello per il sacrificio? Chi ha dato ad Abramo la forza per dire un sì in quel momento, di arrancare su quel monte senza schiantare, senza ribellarsi davanti alla esorbitante e paradossale richiesta di Dio? Siamo alla vertigine del mistero, la stessa che ha provato Maria mentre vedeva suo Figlio morire in croce; vertigine che provano i cristiani che non fuggono davanti all’ordine di rinnegare la loro fede e qui non si tratta di bravura, di nostre capacità; qui si rivela l’autocoscienza di Abramo: quello di essere un uomo tutto di Dio che l’aveva chiamato a generare interi popoli alla fede e ad aprire la strada ad un altro sacrificio: “Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato a tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a Lui?” (…).
Cristo Gesù è morto, anzi è risorto! Anche Cristo mette l’angoscia nel cuore dei suoi amici annunciando senza mezzi termini il suo sacrificio, la sua passione e la sua morte, ma, come l’angelo interviene nel momento in cui l’amico di Dio sta per affondare il coltello nel cuore di suo figlio, così Gesù si trasfigura davanti a tre dei suoi amici più cari: Pietro Giacomo e Giovanni. Là dove noi vediamo l’assurdo, dove ci rifiutiamo di credere che esista un Dio buono, chi cammina nella fede, nella speranza contro ogni speranza, chi obbedisce alla “pretesa” di Dio incontra la gloria: il figlio ridonato, Gesù trasfigurato nella sua gloria.
Solo nella prova noi diventiamo figli in pienezza. Perché Dio ci chiederebbe d’altronde di perdonare i nemici, coloro che ci perseguitano? Abramo è l’amico di Dio, colui che si fida di Dio. Dio ama, ma chiede il sacrificio di Isacco e quello di Gesù. Noi non vediamo come l’amore di Dio possa nascondersi dietro la Croce. Ancora una volta ci chiediamo: che cosa rendeva Abramo così certo nel rapporto con Dio? Esclusivamente il fascino di una fede disarmata. Abramo non era preoccupato di generare il popolo della promessa, non era preoccupato di fare. Ma noi crediamo ancora che basti la fede di fronte alle sfide del mondo? In questo nulla che regna, in questo vuoto profondo, davanti al crollo di tutte le evidenze in chi o in che cosa riponiamo la nostra speranza? Che cosa è in grado di intaccare questo vuoto? Che cosa ha dato ad Abramo la fiducia in Dio fino al punto di non dubitare davanti alla richiesta di sacrificare suo figlio, che cosa dava a Gesù la fiducia totale verso suo Padre?
Quello che l’uomo di oggi attende è l’incontro con persone per le quali l’esperienza della fede che vivono è realtà così concreta che rende il mondo più umano. Solo la testimonianza della verità può convincere la libertà delle persone. Abramo ha testimoniato la sua amicizia con Dio fino al paradosso; e noi?