Non è stato un discorso rituale quello di Sergio Mattarella ieri in Parlamento. Non è stato rituale, né per i contenuti, né per lo stile. Partiamo dallo stile. Mattarella incarna il tipo umano del politico riservato, che non ama apparire, e che quindi anche quando parla non ricorre mai all’enfasi, o ai toni retorici. È antitesi (e speriamo anche antidoto) al profilo del politico iper-narcisista che ha dominato in questi anni. Lo stile riguarda anche il modo di parlare. Mattarella ha tenuto un discorso breve. Ma quel che più lo ha caratterizzato è stata quella che definirei semplicità sintattica. Frasi brevi, punteggiatura fitta, un ritmo quasi sincopato. Non analisi o ragionamenti, ma situazioni osservate e soluzioni plausibili auspicate. Le frasi sono brevi, perché non c’è spazio per subordinate o per aggettivazioni di troppo. 

Dopo lo stile, i contenuti. E in questo caso dobbiamo registrare qualche interessante sorpresa. La prima riguarda il ricorso alla categoria di comunità, una delle parole più usate nel discorso di ieri: ricorre sette volte, sulle 2342 parole complessive del testo. È una parola che si spiega anche con la formazione di Mattarella, che come tutti sappiamo non nasce politico ma lo diventa dopo l’assassinio del fratello Piersanti. La formazione di Mattarella è quella, a cui guardiamo a volte con una punta di nostalgia, dei grandi partiti della prima repubblica: è cresciuto dentro l’esperienza associazionistica, in parte gli scout e poi soprattutto la Fuci. E la dinamica associativa, il condividere percorsi, il mettersi insieme rispetto a degli ideali, sono tutti fattori che oggi incidono, anche più della prospettiva culturale che caratterizzava quelle esperienze. Non a caso Mattarella in un passaggio del discorso nota con molto realismo come il grande tema di oggi sia la solitudine degli individui. Solitudine che rende molto più povere le persone di fronte ai problemi sociali che assillano tanti. 

Comunità è la risposta a queste solitudini. Mattarella la auspica in rapporto a contesti diversi, da quello globale delle relazioni internazionali, a quelli che riguardano la nostra vita collettiva. Non parla ad esempio di immigrati, ma di “comunità di stranieri” valorizzando quindi non il dato statistico o il fattore emergenziale, ma la dinamica che spinge le persone a mettersi in rete. È un refrain che colpisce anche perché lo troviamo ad inizio e soprattutto a fine discorso, quando Mattarella si augura che l’Italia sempre più si concepisca come «popolo che si senta davvero comunità». 

Anche sulla parola giovani Mattarella è tornato più volte (sommato al termine “ragazzi” ricorre 9 volte). È un riferimento che è nell’ordine delle cose, data l’emergenza che le nuove generazioni stanno vivendo nel nostro Paese. Ma anche in questo caso l’approccio non è stato scontato. Mattarella si compiace di veder davanti a sé i volti di tanti «giovani parlamentari».

Poi in un passaggio istintivamente sincero i giovani non sono più evocati come categoria sociologica esposta alle tempeste della crisi, ma come “volti”. Volti, non numeri quindi, che si affacciano agli uffici pubblici per cercare qualche risposta sul proprio futuro, e che l’amministrazione deve imparare a guardare in modo meno formalistico.  

C’è una terza parola che lascia il segno nel discorso di Mattarella: è “famiglia”. Il discorso vi torna quattro volte, con un tono tutt’altro che formale, senza equilibrismi per mostrarsi “à la page” e con grande convinzione. Il neo presidente ad un certo punto ha detto che bisogna sostenere «la famiglia, risorsa della società». Quindi la “famiglia” nella sua imprescindibile valenza sociale. Si capisce che anche in questo caso conta l’esperienza personale, di una famiglia vissuta come energia positiva, capace anche di superare le prove drammatiche della storia. Il fatto che Mattarella abbia atteso la sua nomina “in famiglia” è un fatto che ha un valore simbolico più profondo di quanto si creda. E che spiega la convinzione con cui ha voluto parlare di famiglia davanti al Parlamento.