Figli che attendono i padri

GIOVANNA PARRAVICINI racconta la proiezione del video "La strada bella", sull’esperienza di Comunione e Liberazione, alla Biblioteca dello Spirito di Mosca

«“Padre” è una parola nota a tutti, una parola universale. Essa indica una relazione fondamentale la cui realtà è antica quanto la storia dell’uomo. Oggi, tuttavia, si è arrivati ad affermare che la nostra sarebbe una “società senza padri”». Due giorni dopo la catechesi dedicata da Papa Francesco alla paternità, al Centro culturale «Biblioteca dello Spirito» di Mosca è stato proiettato in pubblico il video La strada bella, sull’esperienza di Comunione e Liberazione. Un’occasione di incontro, di confronto, ma forse soprattutto la possibilità di rispondere alla domanda che – esplicitamente o implicitamente – sempre di più gente ci fa: chi siete, perché vivete in Russia da vent’anni e passa, qual è il segreto che rende il vostro centro una “casa” per persone tanto diverse da voi e anche tra loro? Il video non racconta per filo e per segno una cronologia, non elenca regole e doveri a cui sottostare per vivere un impegno cristiano, ma mostra in filigrana, dal primo all’ultimo quadro, che cosa sia l’autentica “paternità”.

Ed è stata la miglior risposta a queste domande, perché ha suscitato in tanti – un pubblico molto eterogeneo, di amici e conoscenti incontrati in luoghi molto diversi e da persone diverse – la curiosità di una “strada bella” da continuare a percorrere insieme. Come racconta ad un certo punto del video Rose, in auto a Kampala, dire chi si è significa in realtà dire a chi si appartiene. Il XX secolo ha rivissuto una parabola per certi versi opposta alla vicenda del figliol prodigo: la figura del padre è risultata «assente, svanita, rimossa», come ha detto ancora Papa Francesco il 28 febbraio. Questo vuol dire che non c’è più una casa a cui fare ritorno, quindi non c’è più una possibilità di esercitare la propria libertà e compiere una propria scelta.

Resta semplicemente un «padre-padrone», un «padre come rappresentante della legge che si impone dall’esterno», un «padre come censore della felicità dei figli e ostacolo alla loro emancipazione e autonomia»: queste parole del Papa descrivono un sentire che è oggi molto diffuso in Russia tra la gente pensante e anche tra i cristiani più responsabili, nel clima di un paternalismo autoritario che da un lato fomenta paure e complessi dei cittadini (forse a questo punto sarebbe meglio definirli sudditi?), e dall’altro si propone come difesa e protezione dai nemici mondiali in agguato.

Raccogliendo, nel momento di festa e di canti seguito alla proiezione, impressioni e commenti dei presenti, ho sentito ripetere più volte la parola nostalgia: nostalgia di questa paternità e una sorta di rincrescimento per esperienze tentate in passato anche in Russia, come ad esempio quelle del metropolita Antonij Bloom o di padre Aleksandr Men’, che finora non sembrano attecchire. Ma anche una consapevolezza nuova, ad esempio che l’amicizia con cristiani occidentali non è solo un’esperienza tutto sommato “esotica”, ma sta diventando parte di un cammino comune.

Una strada bella, appunto, che ormai ha i suoi tracciati anche in Russia. Un carisma nella Chiesa è un particolare, una goccia nell’oceano, ma ne riflette in piccolo tutta la luce e vastità. Dai tempi in cui don Giussani parlava dell’amicizia con il mondo russo, ortodosso, come del realizzarsi del «sogno della giovinezza» sono passati decenni, la sua esperienza è scorsa a volte in forma sotterranea, è sembrata a tratti addirittura farsi invisibile, sparire, ma poi l’abbiamo vista riaffiorare lontano, in forme e modalità inattese, nuove: è proprio questa l’universalità del carisma, che mantiene l’accento inconfondibile dell’inizio ma non teme di impastarsi con un’altra storia, mentalità e cultura proprio perché ormai non appartiene a se stesso ma alla Chiesa intera. E oggi aiuta le nuove generazioni a riscoprire padri – come il metropolita Antonij e padre Aleksandr – che sembravano ormai avviarsi ad essere dimenticati, o al massimo confinati nei loro libri, nel loro patrimonio teologico. «Padre Aleksandr – ha detto Andrej Desnickij, famoso biblista ortodosso oltre che nostro amico – ha comunque determinato per molti versi il volto del cristianesimo del XXI secolo in Russia. Forse, solo alla fine del secolo diverrà possibile quello che in Italia è sorto a metà del secolo scorso…».

Sapere di avere un padre ti aiuta a sentirti libero, responsabile, il contrario di un’autonomia che in realtà ti rende schavo del tuo piccolo progetto: «In Unione Sovietica la gente non era educata ai legami orizzontali – continua Desnickij. – Io mi sono scontrato più volte con il fatto che i cristiani più liberali o le persone pensanti, tra cui quelli che erano intorno a padre Men’, intraprendevano qualunque attività dicendo “io so esattamente quel che serve”. E la conseguenza è stato il sorgere di un mucchio di gruppuscoli, ciascuno a se stante e ben compattato intorno al proprio leader… Non perché siamo cattivi, ma perché non abbiamo nessuna esperienza di libertà e di responsabilità nei confronti della società, siamo come pulcini che stanno appena rompendo il guscio: ma questa esperienza è forse la cosa più preziosa che c’è oggi in Russia. Forse non arriveremo a vedere il nostro Giussani. Ma possiamo lavorare, insieme a voi, perché arrivino a vederlo i nostri nipoti».

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