Un improvviso intoppo del traffico mi blocca a metà di un viale solitamente scorrevole. La causa è un camion del comune che occupa mezza carreggiata: stanno potando i grandi tigli che costeggiano la corsia. Ho un paio di minuti per osservare: issato in cima ad un braccio meccanico un operaio sta tagliando grossi rami con una motosega; alla fine dell’operazione quell’albero che prima era una selva di rami e rametti – come il suo vicino non ancora potato – diventerà spoglio, essenziale, quasi nudo. Mi viene da considerare che per la pianta la potatura non è un’operazione indolore: non si tratta di tranciare cellule morte, come quando noi ci tagliamo i capelli o le unghie, ma di amputare parti vive. E ci saranno senz’altro movimenti ecologisti estremi che lottano per difendere i vegetali da simili operazioni; in Notting Hill la ragazza che presentano a Hugh Grant per fargli dimenticare Julia Roberts si nutre solo di frutta e ortaggi già caduti a terra, cioè morti, e mai mangerebbe quella povera carota “ammazzata” estirpandola dal terreno.
Eppure la potatura è un’operazione necessaria. Non solo per i nostri scopi: impedire, ad esempio, che quegli alberi si sviluppino così tanto da entrare nelle finestre dei palazzi vicini o che qualche ramo rotto cada sui passanti o semplicemente dare agli alberi una forma più gradevole. La potatura è necessaria per le piante stesse: lasciate crescere senza cura finirebbero per intricarsi a vicenda, per togliersi il sole, per produrre di meno; basta vedere tanti boschi trascurati che si trasformano lentamente in aggrovigliate e infeconde foreste.
La natura vegetale esemplifica che la crescita ordinata e sana di una vita, la nostra vita, necessita ogni tanto di tagli, anche dolorosi. Si tratta di potare tempi colpevolmente lasciati vuoti o sprecati, attaccamenti in cui prevale la possessività, reazioni che si subiscono senza opporsi, brutte abitudini che si accettano come ineluttabili, insulsi modi di fare che si danno per scontati. Sono tutti rami che crescendo smisuratamente sfigurano l’armonia della persona oppure rami intaccati da una malattia che, qualora non venissero recisi, invaderebbe tutto l’albero.
In latino “potare” si dice putare, il cui originale significato è, appunto, quello di “fare pulizia”. Ma poi questo verbo ha dilatato il suo campo semantico, includendo dapprima l’operazione di mettere ordine nei dati quantitativi: com-putare e poi la più alta facoltà dell’uomo razionale, cioè quella forma suprema di ordine, pulizia, limpidezza che dovrebbe essere il pensare (che in latino è esattamente putare).
Allora risulta chiaro che la prima ed essenziale potatura/pulizia non è quella di questo o quel comportamento, ma riguarda l’uso del pensiero: è il governo attento di tutte le sue diramazioni e infiorescenze, è il coraggio di tagliare i suoi rami secchi o malati e di raddrizzare quelli storti. All’inizio si ha l’impressione di aver denudato l’albero; ma poi si ha la soddisfazione di vederlo germogliare più vigoroso, più armonioso, più colorato e fruttificante di prima.