I filmati dell’Isis che pervengono puntualmente nelle redazioni dei media e da lì, censurati nelle immagini più disumane, giungono fino a noi, sono indirizzati tanto agli aspiranti combattenti, quanto agli altri gruppi terroristici che combattono la “guerra santa”: dai primi ci si aspetta l’adesione, mostrando loro una violenza vincente che batte il potere degli eserciti filo-occidentali; dai secondi ci si attende il riconoscimento della leadership in nome di un’efficacia militare e comunicativa che gli altri gruppi non sembrano avere. Il contenuto ultimo del modello di comunicazione varato dai terroristi dell’Isis sembra allora essere riassumibile nell’affermare sé stesso come il gruppo finalmente capace di battere l’Occidente in spietatezza ed efficacia. Proprio per questo l’Isis fa del potere di vita e di morte attraverso le esecuzioni spettacolarmente cruente degli ostaggi il proprio principale prodotto di comunicazione.
Con i suoi filmati agghiaccianti l’Isis spera così di riempire gli spazi cavi delle periferie dell’Occidente rimaste materialmente, culturalmente e spiritualmente vuote. L’assenza di riferimenti, ma anche di relazioni e valori non più operanti consente a questo gruppo di proporre riferimenti, relazioni e valori nuovi: come nel caso delle donne fuggite dai paesi europei al seguito del matrimonio con un terrorista, o nel caso degli uomini che trovano nella “fratellanza delle armi” quei legami persi e probabilmente mai avuti con il proprio mondo quotidiano. L’Isis vuole recuperare l’integrazione mancata di una parte dell’universo giovanile periferico che si chiama fuori dall’Occidente nel quale abita e che detesta con tutte le sue forze. Opera così sul rancore di chi è già ai margini o comunque si sente tale; si ripropone di riempire di senso vite che si percepiscono senza ancoraggi e per le quali il processo di identificazione con la civiltà e la cultura occidentale non si è mai realmente avviato, oppure, come nel caso di occidentali non di origine islamica, è miserabilmente naufragato.
Chi aderisce ha già da tempo bruciato i ponti con un mondo occidentale del quale misura la vacuità, nel quale non sa più distinguere i valori fondamentali di civiltà dai quali questi ha avuto origine, né sa ritracciare il cuore della civiltà che ancora lo circonda. Nei fatti non sa più “leggere” la cultura che gli è di fronte, né quindi sa comprenderla. Le periferie che forniscono i Kouachi, i Coulibaly o i lupi solitari che si preparano “ad uccidere un miscredente in qualunque modo possibile, immaginabile” recano al loro interno degli aggregati sociali implosi già da tempo, sui quali noi sperimentiamo per intero il nostro fallimento, la nostra stessa incapacità di esserci, di trasmettere e di convincere.
Ma attraverso la violenza, puntualmente ostentata, presa a prestito dai videogame e trasformata in una spettacolarizzazione della propria forza e del proprio potere, l’Isis nasconde anche il vuoto che si porta dentro. Parlare con la violenza delle armi è infatti tanto più necessario quanto più serve a coprire l’assenza assordante dei contenuti. La storia dei totalitarismi occidentali mostra come un regime politico sia tanto più violento quanto più deve alimentare la propria stessa allucinazione utopica. Il terrore appare come l’unica via per mantenere l’illusione di saper realizzare quello che in realtà semplicemente non riesce a fare. La morte atroce del pilota giordano, le decine e decine di giovani curdi legati seminudi e fatti sdraiare sulla sabbia prima di essere abbattuti a colpi di mitra, sono allora anche il tentativo di coprire la manifestazione dell’assoluto nulla del quale l’Isis è portatore.
Ma non è forse proprio il nulla — il nulla delle vite degli attentatori, quello delle periferie nelle quali sono cresciuti, delle famiglie che non ci sono mai state, degli educatori mai realmente presenti — ad essere il vero ed autentico volto del Male, il quartier generale nel quale questi si alimenta? Se così è, allora non c’è lotta contro il terrorismo che non implichi, subito e simultaneamente, il recupero di un “pieno” educativo capace di ripresentare e di rendere di nuovo eloquenti e quindi comprensibili le eredità culturali che ci appartengono, ma delle quali abbiamo perso da tempo ogni traccia, se non addirittura ogni memoria.