Sembra paradossale che in un’epoca in cui siamo sommersi di dati e di numeri, nessuno fosse mai riuscito a quantificare in modo verosimile la capacità donativa degli italiani. Cioè quanto si dona ogni anno ad associazioni, fondazioni, chiese e così via. Sappiamo al centesimo quanto donano gli americani o gli inglesi. Invece sull’Italia era nebbia profonda. L’unico dato che circolava era una ricerca Doxa che ci assegnava una somma complessiva risibile di 670milioni di euro (quando il solo sostegno a distanza è attestato sopra i 400milioni…). Per avere un parametro, la Gran Bretagna ha contabilizzato 10,4 miliardi di sterline in donazioni. Era evidente che nelle ricerche sull’Italia qualcosa non funzionava: siamo un paese in cui l’informalità ovviamente contrassegna anche le dinamiche della generosità. Abbiamo un fisco labirintico con 100 diversi tipi di detrazioni per le donazioni, non c’è un’Agenzia o Authority dedicata al controllo e allo studio del settore come la Charity commission inglese. C’è una superfetazione di registri. Se a tutto questo si aggiunge la scarsa trasparenza di tante organizzazioni, si capisce quanto sia complicato tirare una linea per dare il totale delle donazioni fatte ogni anno dagli italiani.
Eppure l’impresa non era impossibile. E lo ha dimostrato un’inchiesta realizzata dal numero di marzo del mensile Vita non profit, che con un lavoro paziente, incrociando tutti i dati a disposizione è arrivata a stabilire una cifra verosimile: 12 miliardi di euro. Quindi molto, molto di più di quanto non si supponesse, ma ancora comunque meno di quanto non si doni ad esempio in Gran Bretagna. La nostra media è infatti di 116 euro all’anno per cittadino, contro i 220 degli inglesi. Fuori classifica gli americani con i loro 753 dollari pro capite. È probabile che il dato italiano sia in realtà anche superiore, per la difficile quantificazione dell’informale, a partire dalle collette effettuate dalle parrocchie. Tuttavia il gap resta ed è anche vistoso.
Come ce lo si spiega? Non tanto con la minor generosità degli italiani, che come ricorda sempre Stefano Zamagni, hanno storicamente inventato le organizzazioni di solidarietà e di mutualismo. Lo si spiega con altre ragioni. Il sistema italiano non incentiva le donazioni come fattore importante, non solo e non tanto nel tamponamento delle emergenze, ma in particolare nel favorire dinamiche di sviluppo. È un deficit culturale che si traduce in un atteggiamento opposto, che ha la sua rappresentazione plastica nell’incredibile complicazione di norme, di sapore quasi punitivo nei confronti del donatore.
La mancanza di trasparenza e di regole che la favoriscano è poi un altro elemento disincentivante. Il conoscere con chiarezza cosa è stato fatto e realizzato con i soldi donati, sarebbe infatti un fattore capace di spingere alla generosità: avrebbe un effetto moltiplicatore da parte di chi già dona, e stimolerebbe l’allargamento della platea. Al contrario la mancanza di trasparenza e quell’opacità diffusa nella comunicazione, allontanano i donatori, li rendono sospettosi. Alimentano quello scetticismo che è il peggior virus che possa intaccare la naturale predisposizione di un popolo alla generosità.
Per questo c’è urgenza di mettere ordine e di semplificare, ad esempio creando un Registro unico nazionale e imponendo l’obbligo di pubblicazione online dei bilanci, promuovendone anche la certificazione. C’è da augurarsi che la riforma del Terzo settore in discussione in Parlamento sappia andare con coraggio in questa direzione.
Anche perché all’orizzonte c’è una partita di dimensioni enormi che è quella dei lasciti delle famiglie estinte rimaste senza eredi. Fondazione Cariplo ha calcolato che tra il 2004 e il 2020 la somma complessiva di queste ricchezze toccherà i 105 miliardi. Se queste risorse tornassero in circolo in forma di “bene comune”, diventando volano per opere di solidarietà e di coesione sociale, sarebbero un grande fattore di sviluppo e di riequilibro. Perché il dono non è un semplice atto di generosità, ma esprime desiderio di cambiamento e di una società umanamente migliore.