Russia, elogio del terrore

Se c'è qualcosa di pericoloso è proprio l'idea di un cristianesimo ridotto a una civiltà. Che può essere difesa con la violenza. Accade in Russia, ma è un rischio per tutti. PETR NAGIBIN

Ucraina, c’è bisogno di Dostoevskij“, si intitolava un editoriale di qualche tempo fa. Molto opportuno, molto ricco di prospettive, anche nel senso che credevo non si potesse pensare una via più semplice per avvicinare Russia e Ucraina: cosa c’è in fondo di più russo di Dostoevskij? E se l’Ucraina aveva bisogno di Dostoevskij avevamo almeno un punto in comune. E forse avremmo pure trovato un punto in comune per un percorso di pace condiviso ed esemplare per tutto il mondo.

Oggi dobbiamo ricrederci. Dalla Russia ci viene un ammonimento: Dostoevskij è pericoloso; è pericoloso soprattutto per i cristiani, perché ha delle formulazioni «teologicamente dubbie», come quella in cui si parla del rifiuto di un’armonia universale costruita sulle lacrime di un bambino innocente. Questo, per lo meno, è l’ammonimento contenuto in un breve articolo di padre Vsevolod Caplin, presidente della commissione sinodale del Patriarcato di Mosca per i rapporti tra Chiesa e società: “Cristianesimo autentico o culto delle lacrime di un bambino?”, si intitola il suo articolo che, polemizzando con un membro dell’Istituto di Economia dell’Accademia delle Scienze, mette esplicitamente in alternativa il grande romanziere e il cristianesimo.

Non è ovviamente questo il luogo per aprire una polemica politico-economica o teologico-letteraria, non foss’altro perché Dostoevskij non era un teologo e non deve passare degli esami di catechismo, e padre Caplin non è un critico letterario. Del resto, c’è qualcosa di più interessante in questo articolo.

Innanzitutto c’è l’idea di un Dio essenzialmente castigatore: «Dio castiga gli uomini e i popoli. Ed è per questo che soffrono bambini e vecchi, peccatori e santi». Per carità, precisa l’articolista, Dio non lo fa per vendetta, ma per «conservare l’unica fede autentica», in quanto per Dio (l’articolista può evidentemente parlare a nome di Dio) «l’accesso alla verità, anche solo di una parte dell’umanità, è più importante delle “lacrimucce di un bimbo”». L’uso della forza è dunque giustificato «nel senso più alto della parola», come dimostra per altro, sempre secondo l’articolista, la storia russa; sostiene infatti padre Caplin: «ai tempi della Grande Guerra Patriottica, la Chiesa disse chiaramente che Dio era con le schiere russe: lo era anche durante il regime ateo che, comunque, ci consentì di mantenere libera la nostra civiltà e di darle la possibilità di manifestarsi appunto come una civiltà cristiana. Se avesse vinto Hitler o se noi, dopo esserci disfatti di lui, ci fossimo sottomessi agli altri paesi occidentali, oggi questa libertà non ci sarebbe più».

Il vecchio editoriale del sussidiario si concludeva dicendo che avevamo bisogno del realismo di Dostoevskij; dopo aver letto questo articolo ci rendiamo conto che di Dostoevskij, forse, si può fare a meno, mentre ci si dovrà assolutamente concentrare sul realismo, sulla salvaguardia della realtà e della sua memoria: se c’è qualcosa di pericoloso è esattamente l’idea di un cristianesimo ridotto a una civiltà e a una civiltà che può essere difesa con la violenza, e sacrificando la memoria dei propri martiri. 

Questi, infatti, vengono considerati non più testimoni di Cristo ma, al massimo, testimoni della grandezza russa; comunque, come le lacrime di un bambino innocente, nel migliore dei casi, sono il prezzo da pagare per la difesa di quella stessa civiltà. In questa sua argomentazione l’articolo di padre Caplin pone dei problemi che vanno ben al di là di una questione teologico-letteraria o limitata all’attuale scontro tra Russia e Ucraina o Russia e Occidente: c’è, da una parte, il problema di uno scontro di civiltà presentato come benefico e voluto da Dio e, dall’altra, l’immagine di un cristianesimo che diventa un’idea: un’idea che è più importante delle singole persone e che come tale va imposta con la paura.

Difficile, lungo questa via, pensare a possibili riconciliazioni, ma difficile anche immaginare come rispondere alla sfida del terrorismo che minaccia la Russia non meno dell’Occidente: se su tutto domina la paura non resta che la violenza o la capitolazione. Non è un caso che in questi ultimi tempi stia prendendo piede in Russia un’associazione che ha scelto come suo nome quello di “Lupi della notte”: il suo capo un ex campione di lotta corpo a corpo che si fa chiamare “il chirurgo”, (ben coadiuvato, si deve credere, nel consiglio direttivo dell’associazione, dalla attuale campionessa mondiale di lotta senza regole), ha esplicitamente detto che si faranno trovare ovunque si riunirà l’opposizione, semplicemente per farle paura, «perché il terrore è l’unica cosa che può fermare la quinta colonna [gli oppositori]».

Questa è la tentazione tremenda che sta vivendo oggi la Russia, ma è una tentazione che può  soggiogare ogni Stato o civiltà e che in fondo ciascuno di noi si porta dentro, rendendo poi così facile la nostra arrendevolezza alle ideologie e all’odio.

Non c’è allora via d’uscita? Per fortuna la Russia non offre solo questi campioni e si ricorda ancora, al di là delle idee più o meno alte, delle persone. Mentre usciva l’articolo fin qui citato, nel portale Pravmir(L’Ortodossia e il mondo) ne usciva un altro, di Ol’ga Allenova, che, senza grandi pretese teologiche, si limitava a ricordare che «ogni delitto contro l’uomo è un delitto contro Dio» e che se ciascuno di noi invece di terrorizzare il proprio prossimo ne avrà compassione, «forse crescerà anche il tasso di compassione nella società» e diminuirà invece il livello di aggressività, anche di quella che viene «da uomini che non conoscono Dio». 

«L’odio ha disseminato dappertutto i suoi frutti avvelenati», continuava poi la Allenova, e se noi stiamo zitti di fronte a questo diffondersi dell’odio «significa che siamo d’accordo con esso. Non credo che questa sia umiltà. La compassione è il principio più importante dell’essere umano e noi veniamo al mondo forse solo per questo: per aver compassione di chi soffre e per cambiare almeno un poco con la nostra compassione il mondo che ci circonda. Non credo nel silenzio, perché il silenzio è morte. Credo nella parola, perché è stata, è e sarà sempre il simbolo della vita».

E questo simbolo di vita torna ad essere una sfida che, come per la tentazione di prima, vale non solo per Russia e Ucraina o per la Russia e il resto del mondo, ma per ogni singola persona.

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