Dal 2004 marzo, e non più aprile, è il mese più crudele. Il giorno 11 è stato commemorato l’undicesimo anniversario degli attentati in cui morirono 191 persone. La Spagna è stata una vittima importante del jihadismo e, nonostante il passare degli anni, le manifestazioni non sono state unitarie. La divisione provocata dalle bombe si prolunga nel tempo come una maledizione, come se non fosse stato sufficiente tutto il male sofferto dalle famiglie e dall’insieme della società spagnola, come se l’alto prezzo pagato in termini di frammentazione civile non fosse ancora sufficiente. La colpa continua ad alimentare un labirinto che sembra essere senza uscita. 

Quest’anno l’anniversario si è svolto mentre continuano gli arresti della seconda generazione di jihadisti: sono già 14 dall’inizio dell’anno. Si tratta di immigrati di seconda generazione, che vogliono combattere per il Daesh o che vogliono reclutare combattenti. L’attentato dell’11 marzo 2004 è stato causato dai jihadisti di prima generazione: stranieri che obbedivano agli ordini presi nel 2001 a Karachi, in Pakistan. L’attacco, come ha dimostrato il Professore Fernando Reinares, esperto di terrorismo internazionale, è stato deciso da Amer Azizi nel 2001 per vendicarsi dello smantellamento della cellula di Al Qaeda che era stata posta nel 1994 in Spagna. 

I pregiudizi di destra e sinistra non hanno permesso di riconoscere come stavano le cose. La destra voleva vedere, infatti, un attacco dell’Eta, mentre la sinistra un attacco islamista come rappresaglia per la partecipazione alla guerra in Iraq. Senza dubbio era terrorismo, e senza dubbio anche islamico, ma era stato pianificato prima che cominciasse l’invasione americana in Iraq. Ora questi veli ideologici continuano a persistere e a non far vedere la complessità della situazione.

Sta crescendo un’islamofobia silente, un’avversità frutto dell’ignoranza e che si nutre delle semplificazione, come quella per cui l’Islam è necessariamente violento. I due milioni di musulmani che vivono in Spagna vengono guardati con sospetto, mentre i vecchi laicisti ripetono che il monoteismo è necessariamente violento e i guardiani dei principi parlano di un Occidente minacciato nei suoi valori principali. Nessuno sembra scendere sul terreno dell’esperienza e si discetta su un mondo che non esiste. 

Il XXI secolo è il più religioso della modernità. I jihadisti di seconda generazione non sono stranieri e non appartengono ad Al Qaeda. Alcuni celebrano l’avanzata della coalizione internazionale e dell’esercito iracheno che è riuscito a entrare a Tikrit. L’avanzata è un bene, ma ha poco a che fare con l’intervento della coalizione internazionale, che continua a bombardare in maniera poco efficiente. L’entrata nella città irachena è stata infatti resa possibile dal fatto che le milizie sciite hanno deciso di prendere l’iniziativa. E una riconquista che non integri i sunniti trasformerà nuovamente il Paese in una polveriera.

La guerra ha molti fronti: Siria, Iraq, Turchia, Libia, Libano e ora anche Nigeria. Forse, però, il fronte decisivo è quello interno, quello che spinge i giovani spagnoli a fare la jihad. Undici anni dopo, dopo tutto quello che è successo, è chiaro che la vittoria dipende da qualcosa che prescinde da qualunque ideologia. 

Noi europei abbiamo esperienza di questa forza che ci ha permesso di non soccombere di fronte al nazismo e al comunismo. C’è voluta una guerra per fermare Hitler, ma soprattutto c’è voluta molta energia umana, molto gusto per la vita, molta certezza sul dono che comporta l’esistenza per risollevare dopo il Vecchio continente. Per far cadere il comunismo sono state decisive risorse che ora ci mancano: stima per l’altro che permette di non soccombere alla spirale della violenza che genera il male; tenacia nell’affermare una verità che non sia astratta; fiducia indissolubile nel valore dell’io, della persona. Questo è quindi un buon momento per rileggere i testi dei dissidenti degli anni ’80.

La stampa in questi giorni ha pubblicato la foto della madre di uno dei jihadisti arrestati. È stata fatta in una scuola. In primo piano c’è la donna affranta: probabilmente non sapeva di quello che faceva il figlio. Sullo sfondo si vede una lavagna dove è scritto l’indicativo presente del verbo essere: io sono, tu sei, ecc. Il jihadista è tale perché non ha imparato bene a coniugare il verbo. Questo è il fronte decisivo: quello che insegna a dire io sono e tu sei con un’intelligenza, un affetto, una tenerezza sempre più crescente. Solo conducendo questa battaglia possiamo cantare senza ingenuità la vecchia canzone di Joan Baez “We shall overcome”.