È passato un anno dall’annessione della Crimea, e lo stesso Putin ha voluto tirare le fila della vicenda apparendo domenica in tv come protagonista e narratore nel film Crimea. La strada che riporta in Patria. Ha subito fatto il giro del mondo la sua dichiarazione: «È stata un’operazione seguita ora per ora e diretta personalmente da me», con l’impiego dell’esercito federale e, «in caso di intervento militare dell’Occidente, era stata predisposta l’allerta nucleare».
Nessuno se n’è mostrato sorpreso, e del resto la verità aveva già cambiato più volte faccia: il 4 marzo 2014 Putin aveva detto che nella penisola non c’erano soldati russi, ma solo «forze difensive locali», poi il 17 aprile aveva ammesso che i militari russi «spalleggiavano le forze difensive locali», e il 13 novembre si è spinto a dichiarare che truppe federali avevano bloccato i reparti militari ucraini. Alla preoccupazione di proteggere la popolazione russofona il presidente si è ritenuto in dovere di aggiungere, nel dicembre scorso, la sacra missione di riprendersi Korsun (Chersoneso), luogo del battesimo della Rus’. Senza dimenticare, naturalmente, la necessità di rispondere alle trame ordite dai «burattinai americani» fin dal Majdan.
Ora Putin ha in qualche modo sancito, come ha detto Andrej Sinicyn, editorialista di Vedomosti (16 marzo), «una nuova fase, un nuovo livello di autoisolamento della Russia». La maggior cautela di Putin un anno fa era forse dettata dalla speranza di poter sistemare la faccenda della Crimea salvando nel contempo le relazioni con l’Occidente, e quindi superando anche il blocco delle sanzioni. Le cose non sono andate così, l’Occidente non si è mostrato abbastanza conciliante — conclude Sinicyn — e ormai nella propaganda gli è stato affibbiato il ruolo di nemico a oltranza.
L’altissima audience del film (a Mosca l’hanno visto oltre 3 milioni di spettatori) basta già a dare il polso della situazione: se in Russia la gente riesce a sottrarsi al giudizio sull’Ucraina e a tranquillizzarsi la coscienza con un generico senso di pietà per le vittime e le sofferenze della guerra, sulla Crimea nessuno nasconde la sua soddisfazione, solleticato dal fatto, in fondo, che si sia fatto un’azione di forza, ci sia ripresi — sia pure con la forza — quella che si ritiene la propria roba, restando tutto sommato impuniti. È la logica del più forte, del più furbo, che riguadagna terreno sul «vivere senza menzogna» di Solženicyn o sull’ortolano di Havel.
Il patriarca Tichon, nei primi mesi del 1918, quando la rivoluzione aveva ormai messo in moto la sua macchina, si prese la responsabilità di scagliare l’anatema non sui bolscevichi, ma su ogni ortodosso che avesse accettato di collaborare con il potere iniquo. Il suo ragionamento era semplice: in una terra di ferventi ortodossi, bastava che smettessero di collaborare perché il potere restasse paralizzato. Si ingannava: milioni di cristiani formalmente ineccepibili passarono dalla parte del potere mostrando quanto poco la fede era divenuta una nuova autocoscienza.
Su un altro scenario: un paio di settimane fa, una novantina di ragazzi russi, italiani, bielorussi e ucraini si sono riuniti in un paesino della riviera ligure — Varigotti — per partecipare insieme a un seminario sulla figura di un teologo e pastore ortodosso del XX secolo, il metropolita Antonij di Surož, in paragone con un’altra grande personalità, stavolta del mondo cattolico, don Luigi Giussani. In un momento in cui un dialogo sembrerebbe impossibile, tra persone così ferite dagli eventi che stanno vivendo i loro paesi, hanno lavorato, discusso, fatto amicizia, si sono scoperti vicendevolmente, insieme ai loro mondi, alle loro memorie, alle loro ragioni. Hanno scoperto che ad accomunare gli uomini è l’umanità, e non le logiche di potere. Hanno scoperto un’unità che non si chiama connivenza, fronte comune contro il nemico, ma desiderio di affermare l’altro per il mistero irriducibile che è. Che queste cose continuino ad accadere ci vieta di perdere la speranza.