Visitare la mostra «Ecce Homo» può essere un buon modo per affrontare con maggior consapevolezza l’ultimo tratto della Quaresima e introdursi nella Settimana Santa. L’esposizione è allestita a Milano nella Biblioteca Umanistica attigua alla chiesa di Santa Maria Incoronata, in quel corso Garibaldi (al numero 116) cui fanno da fondale nuovissimi grattacieli di vetro e cemento, emblema di una città che si sviluppa dimenticando, forse, proprio quell’Uomo di cui la mostra parla. 

Vi si trovano quattordici – come le stazioni della Via Crucis – Crocefissi di William Congdon, di cui una metà mai esposti prima.

Consiglio al visitatore di passare, prima di entrare in mostra, dalla chiesa dell’Incoronata, che in realtà sono due aule gemelle appaiate; nell’abside di destra campeggia un grandioso crocefisso ligneo: è senza braccia (sono andate perse) e il volto abbassato è semi coperto dai capelli: una struttura iconografica essenziale che si ritroverà in alcuni dipinti di Congdon. Avendo negli occhi questo torso amputato dagli arti e questi capelli sanguinanti che coprono la faccia, saliamo nella Biblioteca. Appena varcata la soglia, in fondo ad una fuga di eleganti colonnine rinascimentali, su un fondo nero, ci si impone subito il celebre Crocefisso 90. Qui il corpo è quasi del tutto irriconoscibile e i capelli si distinguono a fatica in mezzo alla massa catramosa a cui l’Uomo crocifisso è stato ridotto. 

Congdon concepì questo quadro ricordando i poveracci che morivano di inedia ai bordi delle strade di Bombay che aveva visto in un viaggio; i loro corpi e i pochi cenci che li ricoprono finivano per confondersi col catrame della strada, come quei poveri animali che vengono investiti e poi continuamente schiacciati dalle auto e, alla fine, non sono che grumo di asfalto. Proprio questa suprema disumanizzazione ha assunto su di sé Cristo, per cui Congdon colse l’unità inscindibile tra la sofferenza dell’uomo e quella di Cristo e scrisse: «Non vedi? La strada di Bombay è diventata la via della vita, la croce».

Una caratteristica accomuna, infatti, i crocefissi esposti (e tutti quelli – quasi 200 – che Congdon ha dipinto negli anni Sessanta e Settanta): la consapevolezza che la crocifissione è momento culminante di tutto il cosmo e tutta la storia. Non si tratta di contemplare un’immaginetta doloristica e di sforzarsi di avere qualche sentimento di pietà verso un poveraccio che muore. Il Crocefisso coinvolge e squassa i cieli; si guardino gli sfondi: vi si legge il movimento di un uragano. 

Il Crocefisso si impone sullo spazio e lo domina: i bordi dei quadri spesso non riescono a contenere le braccia spalancate o i piedi feriti. Il Crocefisso raggruma tutto il tempo della storia: c’è sempre un attimo di silenzio di fronte a questi quadri; il tempo si stringe in un punto, tanto quanto il corpo si è spogliato di ogni dettaglio. Il Crocefisso abbraccia tute le angosce ben evidenti nel sussulto delle spatolate e nell’oscurità del colore. Il Crocefisso, però, lascia sempre uno spazio che viene dal fondo della tavola di legno oppure ti sorprende quando, dopo aver visto quel corpo che sembra nero uniforme e piatto, ti scosti e ti accorgi che, invece, è ricco di toni diversi e ti rimanda lame di luce imprevista. Anticipo di un mattino che sta per attivare.