Oggi nel primo pomeriggio i Musei Vaticani accoglieranno un gruppo di visitatori speciali: sono i 150 clochard che vengono seguiti dall’Elemosineria apostolica e che divisi in tre gruppi verranno guidati per una visita personalizzata, che culminerà naturalmente nella Cappella Sistina.
Il gesto immaginato dall’arcivescovo polacco Konrad Krajewski, a cui il papa ha affidato la responsabilità dell’Elemosineria, potrebbe essere in modo semplicistico interpretato come un gesto simbolico e in un certo senso riparativo nei confronti di persone che pur vivendo nei dintorni del Vaticano si vedono precluse le strade per visitare quei tesori custoditi al di là dei muri. In realtà questo gesto contiene almeno due messaggi molto importanti.
Il primo è il più immediato e il più semplice. Dopo aver garantito delle strutture di welfare leggero a queste persone senza casa, con le docce, i bagni e la barberia, papa Francesco ha voluto ricordare che tra i bisogni primari dell’uomo ce n’è anche un altro: ed è il bisogno di sperimentare la bellezza. E possiamo facilmente immaginare quale emozione e quale commozione possa scattare negli occhi e nel cuore di persone che si scontrano con una quotidianità dai risvolti spesso brutali. Farli entrare nei Musei Vaticani, in condizioni anche di un certo privilegio e di tranquillità, è quindi una giusta attenzione, affinché possano sentire che questa bellezza è stata immaginata e creata anche per loro.
Il secondo messaggio è più indiretto ma non meno rilevante. Da anni assistiamo al piagnisteo di intellettuali e studiosi circa il disinteresse che la popolazione italiana avrebbe nei confronti dei suoi musei. Non che il problema non sussista, se pensiamo che una meravigliosa Pinacoteca come Brera ha poco più del 5% dei visitatori annui, rispetto ad un’altra grande pinacoteca come la National Gallery di Londra. Si può dire che Londra è Londra, che i flussi turistici sono maggiori, ma una sproporzione di questo tipo deve avere ben altre spiegazioni. Il problema forse non sta tanto nell’indifferenza delle persone, quanto nella concezione elitistica con cui, in gran parte dei casi, sono gestiti i musei. Vengono pensati come luoghi per addetti ai lavori o per appassionati, dimenticando che gran parte delle opere che vi sono esposte sono state pensate e concepite non per pochi ma per tanti. Che l’arte in Italia è stata sempre un fatto pubblico e condiviso, come forse in nessun altro paese al mondo. Che ha plasmato non solo le città ma anche il pensiero e il nostro modo d’essere.
A chi dirige i musei italiani manca quella percezione che è stata invece così chiara in Papa Francesco: che la bellezza continua a vivere non come fattore in sé, ma se diventa fattore che innerva la vita e lo sguardo di tutti. Per dirla in termini più prosaici, la questione che i musei in Italia non si pongono mai è quella del “pubblico”.
Che non è questione che si può affrontare solo con buoni o anche ottimi programmi didattici; con proposte che vadano a intercettare in modo più sistematico un pubblico già predisposto. La sfida è quella di far percepire il museo come luogo di tutti, come deposito attivo di un patrimonio, che è patrimonio, anche materialmente, di ciascuno.
Il museo non è un’idea italiana, perché l’Italia è sempre stato il paese dove i tesori erano diffusi dappertutto e, grazie alla Chiesa, erano anche pubblici. È stato in particolare Napoleone a introdurre una logica “concentrazionaria”, rastrellando capolavori e stipandoli nei musei. Quindi si capisce come gli italiani nei musei possano istintivamente avvertire disagio. La scommessa quindi è quella di ristabilire una familiarità, di restituire una dimensione di appartenenza. Persuadere, con la forza dell’esperienza, che l’arte che il passato ci ha regalato è preziosa perché fa vivere meglio. Ci dice chi siamo, che cosa desideriamo. E ci riempie di una bellezza capace di cambiare il nostro sguardo sulla realtà.
I 150 clochard sotto la volta della Sistina di questo faranno esperienza.