Abbiamo appena iniziato a scoprirlo. Enzo Jannacci ci ha lasciato due anni fa e il suo grande mistero di uomo e di artista (che nel suo caso poi coincidevano in maniera sorprendente), si sta facendo strada nel ricordo non tanto dell’establishment culturale, ma in quello di miriadi di iniziative “popolari”, disseminate in tutta Italia, nate dal sottobosco di affetto della gente. “Non sono famoso, ma popolare” aveva detto una volta. Qual è la differenza? Perché tante persone l’hanno amato così intimamente?
Si può senz’altro dire che Enzo aveva una capacità unica di guardare e interpretare la natura umana nella sua profondità, l’umano con dentro una spinta a vivere così intensa da ferirlo. Abbracciava i suoi personaggi, i loro limiti, le loro pazzie in modo delicato. Anzi, diventava uno di loro. La sua ironia non è mai stata cinismo perché la simpatia per ogni risvolto umano prevaleva. E quell’umano andava a cercarlo nei personaggi di periferia: il barbone con le scarpe da tennis, Vincenzina davanti alla fabbrica, l’operaio innamorato che prende il treno per non essere da meno… Personaggi con bisogni e desideri così veri e autentici che non potevano trovare risposta nel consumismo dilagante; bisogni e desideri da non poter essere messi a posto nemmeno da un cattolicesimo formale o da una tranquilla vita borghese.
Quell’ “uomo a metà” (titolo di un suo album) è un uomo molto più attuale adesso, in un’epoca di grigiore, di meschinità e di domande inespresse. Quel bisogno di riscossa, e ancora più di significato, viene sì dalle periferie sociali, ma oggi ancor più dalla banalità imposta, dall’omologazione strisciante che fa uso di un divertimento facile e volgare, distrugge o appiattisce ogni forma di espressione popolare e ammorba e instupidisce il cuore.
Per questo, più passa il tempo, più abbiamo bisogno della poesia e della musica di Jannacci. Di un uomo non omologato, mai appiattito che, come il contadino di “Ho visto un re” sa di aver diritto ad essere triste anche se il potere che gli ha levato tutto lo vorrebbe sorridente e beota. Perché il potere non sopporta che un uomo abbia una ferita aperta, una ferita che urla il desiderio di un oltre che niente e nessuno può assicurare, tantomeno il potere.
Paolo Conte passando in rassegna i personaggi della musica italiana ha detto: “Più di tutti l’Italia ha avuto Enzo Jannacci. Lui è il padre assoluto, è uno che ha annusato in profondo, è andato alle radici della musica antica e l’ha difesa; ha introdotto parole realistiche, non si è mai posto problemi dichiarativi, è entrato da musicista e ha regalato una purezza da far stringere il cuore”. Un cuore, tutt’uno con la testa. Quello di cui c’è più bisogno ora di riscoprire.
Ma Jannacci non è solo genio individuale. E’ espressione della Milano artistica (non solo creativa) del dopoguerra. La Milano degli altri grandi cantanti e autori come Giorgio Gaber; del Romanzo Popolare di Monicelli; della satira guareschiana del Candido; degli scritti profondamente religiosi di Giovanni Testori sia quando inveiva contro Dio sia quando divennero cristianamente ispirati; del Piccolo Teatro di Paolo Grassi e di Giorgio Strehler e del teatro innovativo di Franco Parenti; del Mistero buffo di Dario Fo e Franca Rame alla ricerca di una religiosità popolare scomparsa.
E’ ora che Milano riscopra il valore di questi suoi figli e non rinunci a mostrare il volto culturale che le è più proprio, invece di cadere nell’errore di pensare che per essere universali occorre apparire senza faccia.