Il professor Edoardo Boncinelli nei giorni scorsi ha proposto una riflessione sull’impegnativo tema del mistero. Esordisce così: «L’osservazione del mondo che ci circonda ci propone innumerevoli interrogativi, per diversi dei quali abbiamo già trovato una risposta, mentre per altri speriamo prima o poi di trovarla. Qualcuno però ama definire misteri alcuni di questi interrogativi, soprattutto i più palpitanti». Condivido il fastidio con cui Boncinelli denuncia chi si compiace di vedere misteri dappertutto, svilendo in tal modo il senso profondo della parola e prospettando una realtà fatta soltanto di ombre oscure e minacciose. Sono pure d’accordo quando dice che «un mondo pieno di misteri tende a risospingere l’umanità in uno stadio di soggezione, almeno verso una classe di ‘iniziati’» che sarebbero gli unici abilitati a dare spiegazioni. Qui si intravvede un’allusione alle religioni e alle loro caste sacerdotali; anche se, a ben guardare, andrebbe anche detto che parecchi uomini dediti alla scienza si muovono esattamente come membri di una casta di iniziati; basta aver parlato una volta con certi medici specialisti o esperti informatici.

Boncinelli – per il quale «la tendenza a vedere misteri dappertutto è antitetica a una mentalità scientifica e razionale» – riconosce tuttavia che «porsi problemi chiari e concreti» come fa appunto la ragione scientifica «non preclude l’accesso alle domande più alte»; alle domande, par di capire, che riguardano una sfera che in qualche modo arriva sulla soglia del mistero. Ma la sua conclusione mi lascia insoddisfatto: «Personalmente, io direi: là dove c’è un mistero ci deve essere un interrogativo; poi si vedrà». Resto insoddisfatto non perché, in quanto cristiano, devo per forza schierarmi a difensore del mistero, ma proprio perché simile conclusione mi sembra svilire proprio la ragione. Mettiamo il caso che l’interrogativo che mi si pone davanti sia quello della malattia: pensare che prima o «poi» si troverà una soluzione non acquieta il mio bisogno di sapere «adesso» la ragione di quello che mi sta capitando. La consapevolezza che la scienza economica risolverà domani il problema della fame nel mondo non mi fornisce una sufficiente spiegazione – e quindi il comportamento che ne deriva – del dramma che vedo oggi. Insomma son ben contento del progresso che scioglie interrogativi, ma non sono disposto ad eliminare la domanda che ho oggi nell’attesa di un domani che, tra l’altro, potrebbe non riguardarmi.

Ma c’è un punto ancora più radicale. Descrivendo quelli che – secondo lui indebitamente – vengono chiamati misteri, Boncinelli elenca anzitutto «la nascita (e entro certi termini questo ci può stare)»; ci può stare, forse, perché la scienza non ha ancora compreso esattamente i meccanismi dell’origine della vita. Poi prosegue: «la morte (ma è mai non morto qualcuno o qualche animale?)». 

Eh no, questa non è una spiegazione sufficientemente razionale. Il fatto che tutti gli essere viventi di cui noi siamo a conoscenza siano morti o siano destinati a morire è cosa tanto evidente che non suscita nessun problema, non pone nessun interrogativo, non apre nessun mistero; è così e basta. La domanda, profondamente razionale, riguarda invece il «perché» si muore e se e cosa sarà di noi dopo quel passaggio. Per millenni il pensiero umano non ha risposto con un generico e fumoso «Sarà un mistero», ma ha capito che in verità l’uomo non muore, qualcosa di lui rimane dall’altra parte e che, quindi, anche il nascere non è stato un caso. Allora la ragione si acquieta; non perché smette di cercare, ma perché ha trovato un interlocutore al livello della sua ampiezza: il mistero.