L’impressione prodotta dall’assassinio di Boris Nemcov in Russia è stata fortissima, e giustamente; chiunque ne siano i mandanti è chiaro a tutti che il paese ha fatto un giro di boa e ora sarà tutto diverso, la violenza politica ha scavalcato un ultimo tabù.
Cosa fare ora è la domanda che molti si sono posti: se sia ancora possibile fermare la Russia sul piano inclinato su cui si è messa o sia arrivato semplicemente il momento del “si salvi chi può”. Secondo i sondaggi correnti, la situazione preoccupa solo una minoranza della popolazione: circa un 15-20% di cittadini, ma è possibile che siano di più e che semplicemente non osino dirlo: la memoria della paura è ben viva anche nei giovani che non l’hanno ma sperimentata. Comunque sia questa minoranza ha fatto un gesto significativo uscendo in strada per la marcia funebre del 1° marzo, imponente e composta (si parla di almeno 50 mila partecipanti e qualcuno arriva addirittura a 100 mila), e per il funerale il 3 marzo, quando si è vista una coda interminabile. Un gesto di massa che nello smarrimento generale ha fatto almeno capire che c’è un pensiero diverso, un giudizio indipendente. Ma il punto è: questo basta? Qualcuno incomincia a chiederselo seriamente; c’è chi dice: sono sempre stato un pacifista convinto, ma c’è un limite che non si può valicare.
Questa domanda è stata posta, in modo molto brutale, anche da un giornalista ucraino: “Erano moltissimi a Mosca. Facevano impressione; sono sfilati lenti e composti; volti accigliati, cartelli con parole forti… Poi sono tornati a casa, dispersi, umiliati e sconfitti. Perché erano usciti? Che pena”.
Sembra fin troppo facile, dall’alto dell’esperienza ucraina, sentirsi in diritto di lanciare la sfida ai russi perché imbocchino la strada del confronto diretto, quella che i dissidenti sovietici avevano sempre rifiutato nel timore, fondato, di poter diventare esattamente come il regime che combattevano. Quello che è avvenuto a Kiev sul Majdan è stata una testimonianza di forza unica nel suo genere, e farne uno schema da ripetere meccanicamente non si può, nemmeno nella stessa Ucraina, tanto meno in Russia. O è una forza interiore, una coscienza liberata che si manifesta, o si cade nella logica della violenza, ma nessuno può sapere con certezza quando questa coscienza sia giunta a maturazione e come possa manifestarsi. È la storia, o la Provvidenza, che offre il giusto insieme di circostanze perché un avvenimento possa aver luogo, e perché la libertà dell’uomo possa coglierlo. Il veterano dei dissidenti sovietici Vladimir Bukovskij ricordava quanto fosse forte anche nei primi anni 60 la tentazione di rispondere colpo su colpo, di dire al regime: basta così. E invece avevano scelto diversamente, e fidandosi di questa intuizione avevano dimostrato al mondo che la vera forza consisteva nella loro debolezza, nel lasciarsi arrestare e internare testimoniando che la verità valeva questo sacrificio.
Un altro Majdan non si può prevedere a tavolino, né sarebbe auspicabile farlo. La strada che si apre davanti ai russi, oggi, resta quella di una crescita paziente: del resto, i 50-100 mila di oggi valgono molto di più dei 50-100 mila del 2012, perché molte cose si sono chiarite e la gente oggi ha più ragione di avere paura. Sembra così fragile questa opposizione che scende in piazza e poi se ne torna a casa, limitandosi a far vedere che c’è, ma l’assenza macroscopica di una società civile, come si è dolorosamente avvertito in Russia negli ultimi mesi, l’estrema facilità con cui la massa degli intellettuali, studiosi, artisti, uomini di spettacolo ha ceduto al conformismo o al revanscismo nazionalista parlano da sé. Dicono che c’è un immenso lavoro educativo da fare.
Oggi chi scende in strada per rendere omaggio a un politico morto ammazzato afferma implicitamente che la morte di un uomo (foss’anche Putin) non può mai servire a nessuno. Non basta a salvare una nazione in pericolo. C’è un altro modello di comportamento che offre delle prospettive, anche oggi che lo Stato vuole dettar legge in campo morale: un onesto lavoro culturale che prepari lentamente il terreno al futuro, o che perlomeno permetta di preservare un pensiero consapevole in un presente che ha perso la misura e il senso. Il poeta Josif Brodskij, premio Nobel, diceva che lui non si era mai abbassato a combattere il regime sovietico, si era limitato a scrivere poesie. Molti altri avevano fatto lo stesso, cercando di “allargare la sfera del consentito” dentro il totalitarismo, ed era stata una delle scelte più fruttuose. Oggi si ricomincia da qui, o meglio si continua.
“Senza disprezzo per chi sale sulle barricate – scrive Svetlana Panic su face book, – Oggi l’impegno è “allargare lo spazio della vita”. Sarà poi la Provvidenza a disporre dei frutti. Purché ci siano…”.