Ieri sul sagrato di San Pietro, all’udienza del Santo Padre a Cl nel decennale della morte di Giussani e 60esimo della nascita del movimento, la prima impressione, in un’aria tersa e un sole splendido, era la piazza piena, stracolma; fino a via della Conciliazione. Oltre 80mila persone provenienti da 47 paesi. Un popolo. Che suscitava un pensiero: se questa piazza è piena, se quello che ha iniziato Giussani può riempire questa piazza, è perché prima ha riempito i cuori; ha riempito cuori, in tutto il mondo, che non se ne sono svuotati, ed hanno saputo passare — bastava vedere le generazioni presenti in piazza — ad altri quell’inizio. Cominciato, come ha ricordato Francesco, riprendendo il cuore “fondazionale” dell’insegnamento di Giussani, con lo sguardo che un Uomo, un falegname in Galilea, ha rivolto duemila anni fa ad altri uomini, cambiandogli la vita.
Uno sguardo affidato a quegli uomini — Andrea, Pietro, Matteo — perché con quello sguardo, con i suoi occhi, guardassero ad altri, e ai loro cuori passassero la fiamma che quello sguardo aveva acceso in loro: la tenerezza della misericordia di Dio che si rivolge, anche in modo ingiusto talvolta ad occhi umani, a chiunque cui vada davanti con la sua grazia, a preparargli il sì della sua risposta; come Francesco ha ricordato con il Caravaggio della vocazione di Matteo.
L’eredità di Giussani è questa fiamma, “non un museo di ricordi, di decisioni prese, di norme di condotta”; ma fedeltà alla “tradizione”, alla consegna di questa fiamma, che “tiene vivo il fuoco e non adora le ceneri”. Venirvi meno, venir meno all’incontro con Cristo che quella fiamma accende e tiene viva, per farsi magari “amministratori di Ong” in una “spiritualità da etichetta”, ha ammonito Francesco, è quello che Giussani non perdonerebbe. Perché lui non voleva fondare niente, ma solo tenere viva, passare ad altri, come era stata passata a lui quella fiamma che aveva ricevuto — il senso vero della successione apostolica come “comunicazione di esistenza”, di vita in Cristo; che ieri nelle parole, nei gesti, nello sguardo di Francesco e in chi guardava a lui aleggiava nella piazza.
Prima Cristo, il centro vero che ci decentra da tutto; dalle nostre certezze più o meno presunte; dalle nostre appartenenze, sempre esposte al rischio di chiudersi in se stesse, facendoci incapaci di seguire Cristo dove ci aspetta, precedendoci, presso gli altri che hanno bisogno di noi e presso noi stessi che abbiamo bisogno di Lui. Perché il punto, il punto che anche Giussani ha tenuto fermo, è che «Gesù Cristo sempre è primo, ci primerea, ci aspetta, Gesù Cristo ci precede sempre; e quando noi arriviamo, Lui stava già aspettando. Lui è come il fiore del mandorlo: è quello che fiorisce per primo, e annuncia la primavera».
La stessa scoperta di san Paolo, sant’Agostino, e di tanti altri santi, consegnata alla «Chiesa che deve sentire l’impulso gioioso di diventare fiore di mandorlo, cioè primavera come Gesù, per tutta l’umanità». Giussani ha speso una vita a non perdere quella primavera, e a ricordare a tanti che quella primavera era fuori le porte della nostra vita, era la nostra vita, la sua parte migliore — che ci aspettava. Che si poteva aprire le finestre, che il vento nuovo non avrebbe portato via niente che valesse la pena, avrebbe solo messo la luce al posto giusto sulle cose, sulla nostra giornata. Che l’aria nuova, è certo un impegno nuovo, ma un impegno che un uomo può portare: perché, come ha chiosato Francesco, «la morale cristiana non è non cadere mai, ma alzarsi sempre», grazie alla mano di Cristo che ci prende, alla tenerezza della sua misericordia. Lì per noi. Anche ieri in quella piazza, a suscitare il desiderio di non perderla la primavera, una nuova primavera. Ognuno, e tutti.