Un anno fa, all’inizio del 2014, – scrive il deputato regionale Šlosberg, un raro, incredibile esemplare di politico indipendente nella Russia d’oggi – tutti erano ancora vivi e vegeti: russi, separatisti e ucraini. Un anno fa ci si sarebbe ancora potuti fermare, perché non c’era la guerra. E soprattutto: un anno fa migliaia di persone ora morte erano vive, e non immaginavano di vivere i propri ultimi giorni. Certo, ripensando ai momenti cruciali della storia, viene da chiedersi come sarebbe oggi se Putin invece di fare quella scelta ne avesse fatta un’altra, e l’impossibilità di riscrivere la storia ci spinge a vivere gli eventi come un’ininterrotta tragedia, una fatalità.
La storia non usa il condizionale: tutto quello che avviene, avviene una volta per tutte. Le scelte sono state fatte, la guerra è scoppiata, gli uomini sono morti, la storia sembra andare sempre nella stessa direzione, guidata da leggi immutabili. E a noi, cosa resta da fare…? Resta qualcosa di essenziale che può cambiare tutto, e proverò a spiegarlo con alcuni esempi, in positivo e in negativo.
Marzo 2015, in provincia di Irkutsk (Siberia centrale), il locale Assessorato alla cultura ha dato ordine di ritirare dalle biblioteche pubbliche e distruggere alcuni libri per bambini: Mignolina di Hans Christian Andersen, Karlsson sul tetto di Astrid Lindgren, Tom Sawyer di Mark Twain. Nessuno in realtà aveva dato indicazioni dall’alto, ma dei solerti funzionari hanno semplicemente ritenuto di dover applicare la legge del 2012 sulla “difesa dei bambini dalle informazioni che possano causare danni alla loro salute e sviluppo”. L’episodio sarebbe ridicolo o grottesco se non dimostrasse il diffondersi di un’inquietante realtà: la volontà di mimetizzarsi pedissequamente col pensiero dominante, senza porsi alcun interrogativo, senza usare il senso critico, la ragione o anche solo il buon senso, per il solo desiderio di associarsi a una verità qualsivoglia purché “giusta”, ufficiale, definitiva.
Si poteva pensare in passato che, ad esempio sotto Stalin, l’origine del conformismo sociale fosse il terrore, ma oggi ci si accorge che non è più necessario nemmeno quello: la gente desidera liberamente cedere a qualcun altro il proprio libero arbitrio in cambio del benessere psicologico che dà lo stare dalla parte giusta. Questo conformismo non è, come si vorrebbe far credere, la vittoria dell’ordine e della cosiddetta “cultura dei valori tradizionali”, anzi mostra tutta la sua fragilità quando è costretto a misurarsi con una posizione diversa; allora il moralismo di cui è intriso si scopre privo di reali argomenti e diventa puramente difensivo o, peggio, aggressivo.
A Novosibirsk, nel dicembre 2014 il teatro dell’opera ha messo in scena il Tannhäuser di Wagner completamente rivisitato in chiave moderna, dove compare anche un Cristo preda delle passioni carnali. Un’invenzione abbastanza kitsch e neanche tanto nuova, se ricordiamo il film L’ultima tentazione di Cristo, ma lo scandalo è lievitato assurgendo a caso nazionale dopo che il vescovo ortodosso locale, metropolita Tichon, ha invitato la Procura ad aprire un’inchiesta sul direttore artistico del teatro e il regista Timofej Kuljabin.
L’azione del vescovo ha fatto il gioco “del nemico”, offrendo l’occasione di lanciare una crociata contro l’oscurantismo clericale in difesa della libertà dell’arte e della cultura. Insomma la dialettica si sviluppa negli stessi termini in cui si pone in Europa, senza offrire nuove risposte forti e creative, al di là del ricorso alla magistratura.
Un’altra città, un altro episodio: a Mosca, sul ponte dove è stato ucciso Boris Nemcov a un mese di distanza la gente ancora depone fiori, foto, lumini. Ma il portavoce del governo aveva detto che Nemcov era “poco più che nessuno”, un politicante e un affarista, così, i giorni scorsi, ci sono stati dei liberi cittadini che, nottetempo, hanno imbrattato di vernice i cartelli e i messaggi di memoria e cordoglio, e gettato nel fiume i fiori. Vibranti di spirito patriottico e di sacro disprezzo per i nemici, i cittadini, coscienziosamente, odiano.
Ultima città: Kiev, 24 marzo. È in corso il Festival internazionale del documentario e proiettano un filmato sul Majdan, segue il dibattito col regista. Si alza un ragazzo e chiede senza troppi filtri: ho visto Molotov e sassi, è questa la rivoluzione della dignità? Una frase un po’ importuna, che ferisce detta proprio a Kiev, dove solo un anno fa sono morti in 100 sul Majdan. Si sentono dei fischi, un signore si alza e gli ringhia: via di qua! Ma il regista interviene: ehi signore, parlo con lei! meno male che non ha una pistola, sennò che gli faceva: gli sparava, eh? Se uno fa certe domande è perché vuole una risposta…
Alla fine della discussione un altro ragazzo raggiunge il primo e lo ringrazia perché, dice, “hai avuto il coraggio di dire la tua”. Una volta che le scelte politiche sono state fatte resta esattamente questa possibilità: farsi delle domande importune, e cercare delle risposte difficili; per non chiudere definitivamente il discorso.